Denaro, fascino e repulsione di un protagonista che rende «l’infanzia luminosa»
In versi «La rimozione del conflitto» di Andrea De Alberti, edito da Industria & Letteratura
In versi «La rimozione del conflitto» di Andrea De Alberti, edito da Industria & Letteratura
Può un poeta contemporaneo scrivere un libro sullo scivoloso tema del denaro? E, se sì, come va interpretata un’opera che, come quella di Andrea De Alberti da poco apparsa per Industria & Letteratura, sia annunciata da un titolo dalle risonanze saggistiche come La rimozione del conflitto?
FORSE POTREMMO cavarcela facendo dialogare questi versi con una sfilza di filosofi che hanno analizzato il feticismo del denaro, a partire ovviamente da Marx e Simmel, il quale per esempio sosteneva – nella capitale Filosofia del denaro del 1900 – che «l’economia monetaria favorisce il predominio delle funzioni intellettuali su quelle emotive». Avremmo sicuramente detto qualcosa di interessante, ma probabilmente non avremmo colto il nucleo incandescente e problematico di questo libro, che ruota attorno al fascino e alla repulsione che il denaro esercita sull’animo umano e alla sua relazione con l’infanzia e con l’adolescenza.
DE ALBERTI AMA le sfide ambiziose e i temi difficili: il suo libro precedente, Dall’interno della specie (Einaudi, 2017), interrogava la relazione tra le generazioni in un’ottica obliquamente paleoantropologica ed etologica, mentre questo nuovo capitolo della sua opera, come ci informa una nota finale, si propone di «elaborare e rimuovere un conflitto con i soldi»: in nessuno dei due casi, però, De Alberti ha inteso dimostrare una tesi o svolgere un discorso critico, giungendo a conclusioni di tipo speculativo, ma attraverso la poesia ha portato l’esperienza, la memoria e le relazioni personali a fare i conti, in modo imprevedibile, con il tema e il concept scelti.
La rimozione del conflitto (pp. 64, euro 15) si articola in cinque sezioni che non mettono mai in scena, se non in modo indiretto, la vicenda di un io. A parlare è una voce impersonale che racconta o commenta le azioni di un soggetto di terza persona, di genere variabile («Si sveglia ogni notte alle tre. / Gli sembra che la notte, se spezzata / come il pane, sia migliore»; «Si è capito che voleva leggere un luogo / e dopo si è dimenticata di scrivere qualcosa»).
INTORNO A QUESTI SOGGETTI, le forze in relazione con il denaro si fronteggiano e si attraversano: nelle prime due sezioni prevalgono leopardianamente l’immaginazione, che «vive di proiezioni» e scova in una sedia «un piccolo universo», e l’infanzia, per niente immune dal fascino ambivalente del denaro, se è vero che nell’ultima poesia leggiamo: «L’infanzia è il nostro letto | I soldi fanno l’infanzia luminosa».
A mano a mano che il libro progredisce, la complessità e la densità dei testi, che talvolta assumono il tono della sentenza, aumentano: «Esempio: tra il desiderio e la speranza / c’è un fenomeno intellettuale»; «Il tempo non è un desiderio primario né secondario…». Ma la speculazione di De Alberti, come si diceva, viene spesso turbata dalla memoria e dall’esperienza, che si insinuano nella poesia producendo versi di grande icasticità, malgrado la loro (apparente) naturalezza lombarda: «Le estati sono i cimeli della nostra vita», oppure «Omaggiamo l’infanzia in un autentico forziere di albe».
LA QUARTA SEZIONE rappresenta il culmine del libro: due lunghe poesie ribadiscono in modo quasi ossessivo la potenza feticistica del denaro («Il denaro trasfigura le cose,/ le carica di una potenza magica») e il suo influsso sull’adolescenza, l’«equivoco fatale» che nasce «quando per la prima volta ci danno i soldi per le caramelle»; fino a che, da adulti, scopriamo che «La pietà è nemica del denaro» perché ci fa guardare in basso, verso chi chiede soldi in ginocchio, e non verso «i frutti dell’albero della cuccagna».
Neanche l’ultima sezione, in prosa, serve a rimuovere fino in fondo il conflitto, perché De Alberti racconta con nostalgia la trattoria dei nonni, persone autentiche che vivevano in un posto raccolto dove «le uniche visite dovevano portare i soldi». Così, come deve capitare in un libro di poesia, l’ultima riga non offre a chi legge una soluzione definitiva, ma una splendida, difficile polisemia: «L’osteria era la Banca dell’infanzia».
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