Un singolare paradosso grava sulla democrazia ateniese di epoca classica (V-IV secolo a.C.). Per un verso, essa è ancora oggi considerata come la più antica democrazia della storia europea, tanto da essere celebrata dagli uni (da chi per esempio la innalza a paradigma dell’identità politica dell’Occidente), o per converso criticata da altri (per esempio da chi in quel paradigma non si riconosce affatto), ben al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti di storia antica. D’altro canto, nella tradizione antica giunta fino a noi sono soprattutto le voci critiche a emergere, talora aspre fino al drastico rigetto della democrazia stessa: si va dall’anonimo autore di un pamphlet noto come Vecchio Oligarca o Pseudo-Senofonte, a Platone, che ha pagine di sferzante ironia nei confronti delle democrazie del suo tempo, passando attraverso tanti altri intellettuali più o meno noti.

La mancanza di un testo pro-democrazia paragonabile a quelli citati portò Moses Finley, storico dell’economia e delle società antiche tra i più influenti della seconda metà del Novecento, ad affermare che in Grecia circolavano, sì, «concetti e princìpi generali» ma che mai si arrivò a elaborare una teoria democratica sistematica (in La democrazia degli antichi e dei moderni, un «aureo libretto» che attraverso la comparazione tra antico e moderno mirava alla critica delle «apatiche» democrazie contemporanee; uscì in I edizione nel 1973 ed è tuttora ristampato da Laterza). Appena più sfumato era il parere di Arnaldo Momigliano, tra i maggiori storici italiani (non solo antichisti) del secolo scorso, in una delle sue memorabili recensioni. A Finley e Momigliano obiettò Domenico Musti (in Demokratia. Origine di un’idea, Laterza 1995) che in realtà un testo non frammentario di teoria democratica ci è pervenuto, anche se non in forma di trattato: il discorso funebre attribuito a Pericle dallo storico Tucidide, a volte riduttivamente considerato un discorso di propaganda o addirittura come la celebrazione di un regime democratico solo di nome ma aristocratico di fatto (così Nicole Loraux in L’invention d’Athènes, pubblicato a Parigi nel 1981, un libro che ebbe una grande risonanza a livello internazionale). Musti però, fors’anche per una scrittura non sempre comunicativa, non riuscì a capovolgere la convinzione diffusa che la concreta pratica democratica ateniese si accompagnasse a un sorprendente vuoto di teoria democratica.

È questo il paradosso che affronta Gianfranco Mosconi in Democrazia e buongoverno Cinque tesi democratiche nella Grecia del V secolo a.C. (LED Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, pp. 230, euro 32,50). Le cinque tesi democratiche alluse nel sottotitolo non concernono tanto l’affermazione della democrazia come governo giusto, quanto la sua difesa come governo efficiente. È questa infatti la critica più ricorrente nei testi antichi: che la democrazia non sia il governo migliore perché dà potere a un popolo che non è capace di governare bene; e non è capace perché non ha le giuste competenze intellettuali e morali, ossia non è né provvisto delle conoscenze adeguate né dotato delle qualità spirituali necessarie, né ha il tempo o l’opportunità per recuperare il gap rispetto a quei gruppi sociali ristretti che per nascita, educazione, stile di vita sono «naturalmente» forniti di quell’intelligenza e saggezza che producono il buon governo; nell’ottica dei critici, non al popolo ignorante e stupido spetta dunque il governo ma ai «migliori», a chi è stato istruito ed educato per questo, a chi sa come parlare in pubblico, compreso chi ha saputo gestire la propria ricchezza. Non il principio dell’uguaglianza dovrebbe quindi prevalere, ma quello della competenza e del merito. Tra uguaglianza democratica e principio di competenza c’è, insomma, fin dalla Grecia antica una tensione tutt’altro che sconosciuta alle democrazie del XXI secolo; basti pensare all’ideologia così diffusa della meritocrazia, denunciata recentemente da Michael Sandel come una forma di tirannia.

Questa analogia tra antico e moderno viene efficacemente messa in risalto da Mosconi, non certo per strizzare l’occhio al lettore all’insegna dello stereotipo per cui non ci sarebbe niente di nuovo sotto il sole; quanto per la convinzione che «problemi teorici simili (come la tensione fra ‘governo nelle mani di tutti’ e ‘capacità di governo’) conducano ad argomentazioni simili». Di qui la frequenza dei riferimenti a scienziati politici e sociali contemporanei (come il citato Sandel o il politologo statunitense Robert Dahl), e perfino a uomini politici contemporanei come Trump e Berlusconi, quasi un sottofondo che attraversa tutto il libro, in una prospettiva di dialogo con discipline che si trovano fuori dalle mura consolidate dell’antichistica; un dialogo che forse farà storcere il naso a chi teme contaminazioni poco scientifiche, mentre invece intercetta uno dei filoni più interessanti degli studi internazionali sulla democrazia antica, che finora non aveva attirato molta attenzione tra gli studiosi italiani.

Tornando alle tesi democratiche, Mosconi le illustra con dovizia di puntuali richiami alle fonti, tutte tradotte per permetterne la lettura anche al non antichista; si va dalla fondamentale distinzione tra formulazione delle proposte politiche, lasciate all’élite, e capacità di decidere delle proposte stesse, affidata al popolo perché solo così si riesce a tenere conto degli interessi di tutti; alla tesi per cui l’unione degli uomini comuni, che presi singolarmente sono meno competenti rispetto all’élite, produce una competenza complessiva superiore, non tanto per un fattore quantitativo quanto per la molteplicità dei punti di vista (è la tesi della saggezza della moltitudine, presentata da Aristotele nella Politica); all’idea che la partecipazione alle istituzioni democratiche sia una forma di educazione che innalza le competenze politiche dei cittadini. In tempi in cui lo spazio della democrazia è sempre più ristretto anche in quei paesi che se ne proclamano difensori, sono cinque tesi su cui vale la pena tornare a meditare.