Cultura

Delphine Horvilleur scrive l’addio per parlare della vita

Delphine Horvilleur scrive l’addio per parlare della vitaUn ritratto della rabbina e femminista francese Delphine Horvilleur

Scaffale Il «Piccolo trattato di consolazione», edito da Einaudi. Al centro, il rifiuto di ingessare la tradizione ebraica in un rituale noto e sempre uguale

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 26 luglio 2022

«Con il passare degli anni mi pare proprio che il mestiere più vicino a quello che faccio io un nome ce l’abbia: narratore»; così, nelle pagine di esordio del Piccolo trattato di consolazione, definisce il proprio ruolo Delphine Horvilleur, una delle poche rabbine di Francia. Delle molte possibilità che il mestiere di rabbino offre l’intellettuale e femminista Horvilleur sceglie di raccontare non solo della morte ma di ciò che immediatamente la segue: il dolore di chi sopravvive, le strategie di fuga dallo strazio, il rapporto con la ritualità ebraica narrati da «un rabbino laico» – come si è sentita definire con sconcerto la rabbina di Judaisme en Mouvement. Ma più che di morte si parla di vita, anzi di vite, rigorosamente al plurale.

«Alla vita», «Lechaym», dicono alzando il calice gli ebrei laici e religiosi nelle occasioni rituali come in quelle profane: ma, scrive Horvilleur, in ebraico «la parola chayim, vita, è un plurale, in questa lingua non esiste al singolare. L’ebraico ci dice che ognuno di noi ha più vite, non successive ma intrecciate le une alle altre, come dei fili che si intessono lungo l’esistenza e attengono l’epilogo per separarsi».

STORIE DI VITE INTRECCIATE che giungono, inevitabilmente, a compimento. Horvilleur ne narra con grazia e ironia senza sottrarsi al tragico e al dolore nel nuovo volume edito da Einaudi (pp. 168, euro 16,50) con la traduzione di una firma nota quale quella Elena Loewenthal. Cosi scrive Horvilleur del narrare: «Accompagnare i dolenti non per insegnare loro qualcosa che già non sappiano ma per tradurre quello che hanno già detto (…) una voce che faccia dialogare le loro parole con quelle di una tradizione antichissima, trasmessa di generazione in generazione, tanto ai ‘buoni’ quanto ai ‘cattivi’ ebrei e, soprattutto, a coloro che fanno quello che possono».

Il rifiuto di ingessare la tradizione ebraica in un rituale noto e destinato a ripetersi infinitamente uguale a sé stesso corre lungo il libro nelle storie di funerali e di persone molto diverse le une dalle altre: «L’ebraismo – scrive offrendo una prospettiva che allarga il respiro delle identità congelate laiche, atee o di qualsivoglia religione siano – è sempre qualcosa di più grande del ‘mio ebraismo’. Conserva spazio libero per una concezione diversa dalla mia (…) L’ebraismo garantisce entro di sé lo spazio (…) di un’ebrea non credente e quello di un rabbino senza che nessuna possa rivendicare più legittimità dell’altra».

La rabbina narratrice racconta quindi di funerali con un solo partecipante come quello di Sarah al quale presenzia solo il figlio, o funerali di Stato, come quello di Simone Veil, madre d’Europa e più volte ministra, o quello di Marceline Loridan-Ivens, «militante dell’estrema gauche con una matassa di riccioli fulvi». E così, dei diversi percorsi tessuti tra la vita e la morte Horvilleur intreccia passi dall’esegesi più rigorosa alle leggende più suggestive. Parla di angeli e demoni, di sacro e profano, di declinazioni delle lingue: «Abracadabra è una parola che tutti conoscono (…) si tratta di un termine aramaico»: significa, letteralmente, ‘abra’ ‘ha fatto’ e ‘cadabra’ ‘come ha detto’. «Il verbo crea un mondo che non esisteva prima. Con una parola il mondo cambia».

Ma Horvilleur scrive anche di Myriam, un’anziana americana che trascorre il proprio tempo ad organizzare compulsivamente il proprio funerale al quale la figlia la invita: «Questo momento che ti ossessiona abbiamo deciso di fartelo vivere. Così vedrai tutto e potrai, finalmente, se Dio vuole, passare ad altro». «Avevo capito – commenta Horvilleur – che l’aspirante rabbino che ero non avrebbe mai più messo in dubbio la possibilità della resurrezione, perché ne ero stata testimone».

SONO MOLTE – e differenti tra loro – le interpretazioni rabbiniche su cosa accada dopo la morte e il libro ne offre una panoramica, ma una delle domande che gli esegeti si pongono è quale «sapore ha l’olam haba?», «il mondo al quale approderemo». Per alcuni è lo Shabbat, il sabato, a recarne un sentore, per altri ne offre un assaggio lo studio della Torah, l’insieme dei testi sacri dell’ebraismo. «Per me – chiosa la rabbina francese – grazie a Myriam, il ‘mondo a venire’ avrà per sempre l’aroma degli infusi di erbe. È opera, a Manhattan, di una donna tornata alla vita un giorno d’estate e che da quel giorno vi offre una tazza di tè aromatico, pregando il rabbino che non la seppellirà di insegnarle l’ebraico». Horvilleur scrive di morte per parlare di vita anche a chi non ha gli strumenti per fare né l’uno né l’altro: «Lechaym!».

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