Di questi giorni sulle pagine culturali di mezzo mondo non si fa altro che parlare delle varie «cancellazioni» di cui sono bersaglio autrici e autori colpevoli di avere vissuto in un contesto culturale meno «diverso» e «inclusivo» e «sensibile» rispetto a quello in cui ci capita di abitare adesso. Ed è possibile che anche qui dovremo occuparcene ancora, perché la lista dei reietti continua ad aumentare. L’ultimo caso di cui siamo venuti a conoscenza, ma chissà quanti ne ignoriamo, lo ha segnalato il Club de Traductores Literarios de Buenos Aires nel suo blog, riprendendo una notizia rimbalzata dai Paesi Bassi: una rappresentazione studentesca di Aspettando Godot di Samuel Beckett è stata bloccata dall’università di Groningen, perché il casting aveva convocato solamente attori, nel senso di uomini, una scelta che va contro la politica di inclusività dell’ateneo, e poco conta che Beckett abbia scritto la sua pièce avendo in mente appunto interpreti maschili.

Oggi però tratteremo un argomento di cui si parla molto meno, e che anzi è di solito tenuto signorilmente sotto silenzio: i soldi. Lo spunto viene da un recentissimo rapporto intitolato Structurally F*cked e commissionato da a-n, un’organizzazione non-profit del Regno Unito che raccoglie circa trentamila artisti con l’obiettivo di «stimolare e sostenere la pratica delle arti visive contemporanee e affermare il valore degli artisti nella società»: ne dà conto Ben Quinn sul Guardian, spiegando che scopo dell’indagine è capire quanto guadagnano mediamente gli artisti che lavorano per progetti realizzati da istituzioni pubbliche britanniche grandi e piccole.

La risposta è facilmente intuibile: poco, molto poco, troppo poco. Secondo il rapporto la somma percepita per un’ora di lavoro ammonta infatti a 2 sterline e 60 centesimi, un quarto o poco più di quello che dovrebbe essere il minimo garantito di 9 sterline e 50. Come spiegare questo divario? Semplice: «Le somme forfettarie sono la forma più comune di pagamento per gli artisti, il che spesso offusca le molte ore di lavoro coinvolte in un progetto», scrive Quinn, aggiungendo che «le istituzioni artistiche pubbliche, cronicamente sottofinanziate e alle prese con bilanci sempre più ridotti, sembrano scaricare il peso maggiore dei tagli sugli artisti e sui loro collaboratori».

Sarebbe interessante compiere una ricerca simile anche in Italia, estendendola anche ad altri campi, e non limitandosi al settore pubblico. Prendiamo il caso dell’editoria, e circoscriviamo l’osservazione a quel gigantesco marchingegno che sono i festival letterari: anche lasciando da parte il fenomeno del volontariato che, come dice il nome, è volontario (e su cui comunque pesa non poco lavoro), quanto guadagnano le persone coinvolte, e in particolare gli stessi scrittori che in fin dei conti di queste manifestazioni sono o dovrebbero essere il motore? Piccole e grandi soddisfazioni personali, certo, ma – tranne rare eccezioni – cifre minime, tenendo conto del tempo e della fatica, e in molti casi neppure quelle.

Non così in Francia, dove – si è appreso ieri nel corso di «Farnese à la page», prima edizione degli Incontri franco-italiani sul futuro del libro, che si è tenuta a Roma appunto presso Palazzo Farnese su iniziativa dell’Institut Français – dal 2015 è in vigore una legge in base alla quale fiere e festival letterari che desiderano ottenere un finanziamento dal Centro nazionale del libro (l’equivalente del nostro Cepell) devono obbligatoriamente remunerare autrici e autori, una misura – scriveva allora Cécilie Mazin su Actualitté – che «risponde alla constatazione dell’impoverimento degli scrittori». Ed è tutto detto.