Deglobalizzazione selettiva al via
L’inflazione e, in qualche misura persino la guerra in Ucraina, sono fulmini a ciel sereno? Oppure al di là di pandemia e ambizioni imperiali sono il frutto di un ritorno della geopolitica come conseguenza di parziali processi di deglobalizzazione? Insomma, oltre la contingenza esiste un substrato strutturale che alimenta le dinamiche in atto? Un anno fa L’Economist affermava “la geopolitica diventa sempre più conflittuale.
Man mano che la competizione tra America e Cina si intensifica, cresce la minaccia di embarghi o persino di conflitti militari”. Tutto ha inizio con la crisi del 2008 che è stata arginata, ma non risolta. I disequilibri prodotti dalla crescente globalizzazione finanziaria e produttiva sono esplosi nel decennio scorso, avviando un lento percorso in cui si è affermato un rallentamento dei tassi di internazionalizzazione degli scambi commerciali e delle delocalizzazioni industriali.
Negli anni prima della grande crisi del 2008 il commercio estero mondiale cresceva del 7,6% l’anno, dopo il 2008 del 3,5%. La pandemia ha assestato un ulteriore colpo, ma va anche segnalato il rimbalzo notevole nel 2021 che porta il volume degli scambi a un +13% rispetto ai livelli prepandemici. La crescita della globalizzazione prima e la sua parziale crisi dopo hanno finito per alimentare scompensi su scala mondiale. I “paesi occidentali” hanno perso terreno, tra quelli emergenti la Cina è diventata potenza di primordine, scardinando il tanto atteso mondo unipolare risultante del crollo del blocco sovietico.
La competizione se da un lato ha fatto crescere i profitti delle multinazionali a trazione occidentale dall’altro ha favorito un parziale recupero di alcuni paesi dell’altra metà del pianeta. La crisi del 2008 ha reso evidenti le contraddizioni e, in assenza di una strategia di rilancio di una crescita economica sistemica, ha prevalso la necessità di scaricare la crisi sui rivali. Le guerre valutarie, la competizione sulle terre rare e le materie prime, le guerre commerciali avviate con Obama e radicalizzate con Trump, fino allo scontro sui big data e le tecnologie informatiche, ne sono state la manifestazione più evidente. Una molteplicità di processi che sono andati nella direzione di un ripiegamento dell’economia internazionalizzata e di una ricentratura su macro-aree dove il fattore nazionale è tornato a essere strategico anche sul piano militare. La pandemia si è innestata su tale panorama e lo ha ulteriormente alimentato, spingendo Stati e imprese a differenziare le catene di approvvigionamento accorciando le distanze.
L’interventismo monetario e fiscale per fronteggiare i blocchi economici combinati con una successiva ripartenza della domanda e una incertezza dell’offerta, hanno avviato una spirale inflazionistica. La guerra ora è certamente il frutto delle mire russe, ma anche di movimenti fondati sul recupero di centralità degli assetti geopolitici.
Dal rallentamento della globalizzazione siamo passati alla deglobalizzazione selettiva in settori strategici (energia; semiconduttori; alimentare, informatico) e incardinata su base geopolitica. Il modello costruito negli ultimi quarant’anni non scomparirà, ma certamente verrà riconfigurato, con un inevitabile aumento dei costi. Oltre la durata della guerra i suoi strascichi, a partire dalle sanzioni, scardineranno il vecchio modello. La finanza, gli scambi commerciali e l’industria troveranno equilibri su una scala geografica minore. Ci sarà un ritorno dei magazzini e di filiere corte.
Si parla di recupero di autonomia nazionale o, esagerando, addirittura di autarchia. La concorrenza tra capitali sarà maggiormente condizionata dagli interessi geopolitici. Leggere la guerra oggi o la pandemia ieri semplicemente come fattori esogeni ai consueti meccanismi di sviluppo dell’economia di mercato significa non comprendere quali moventi all’agire in questi anni hanno spinto nella direzione che stiamo drammaticamente vivendo.
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