Cultura

Dedalo, Dedalus e le altre «creature»

Dedalo, Dedalus e le altre «creature»«Labirinto» di Robert Morris, Pontevedra

Metamorfosi / 6 Viaggio immaginifico per le trasformazioni della letteratura inglese. Da Joyce passando per Blake fino ad Alasdair Gray, trascinati dallo statuto cangiante della parola. Scambi di persona, nomi che si rimescolano, storie che si rincorrono. Dove può accadere che la città di Dublino sia un gigante e il fiume che la attraversa abbia fattezze di donna. Anche il libro «Poor Things», portato al cinema da Yorgos Lanthimos, è un’altra titanica opera di mutamenti: a partire da Bella che rinasce dalla morte

Pubblicato circa un mese faEdizione del 20 agosto 2024

Letteratura e labirinto dovrebbero essere sinonimi. Una volta entrati non se ne esce facilmente. Sinonimi in senso onirico, ovviamente. Nell’ottavo libro delle Metamorfosi, ad esempio, Dedalo, il creatore del labirinto e padre di Icaro, quando sente il peso del suo confino a Creta sente anche di potersene liberare con leggerezza quasi calviniana, ossia librandosi in cielo. (L’avrebbe seguito il figlio, ma con esiti meno felici).

LA STORIA È NOTA e non serve ripeterla, perché le storie son fatte di parole, e quando le parole vengono ripetute cambiano. Ma se lo fanno è per trasformarci. Per mutare il nostro posizionamento, la nostra geografia. Queste le parole che leggiamo nel noto passo di Ovidio: «Che Minosse mi sbarri terra ed acqua – pensò Dedalo – il cielo resta pur sempre aperto». (Sembra di sentire Shakespeare nell’Amleto: «ci sono più cose in cielo e in terra…»).

Quanto a Dedalo, che sognò allora di volare, se ci riuscì è perché scelse di dedicare il suo animo ad arti ignote («et ignotas animum dimittit in artes»), regalandoci al contempo una grande metafora di quel che fa l’arte e di quel che è la vita.

Ma quelle parole ovidiane le ritroviamo anche altrove, come esergo a un libro di Joyce, Un ritratto dell’artista da giovane (il Dedalus, secondo la traduzione di Pavese). Lì il protagonista si chiama come il creatore del labirinto e delle famose ali per volare, appunto Dedalus. Tanti anni prima, a inizi Settecento, uno scienziato svedese che poi si fece mistico, Emanuel Swedenborg, inaugurò una rivista dal titolo Daedalus Hyperboreus in cui si illustra anche un progetto di una macchina per volare. Un suo modello è esposto allo Smithsonian di Washington.
Simili metamorfosi, simili osmosi tra letterature, arti e tecniche proseguono, sempre con Joyce, nell’Ulisse, dove il personaggio Dedalus è chiamato «iperboreo», ma non è un iperboreo nietzscheano capace di innalzarsi e volare per vedere i propri figli cadere. E poi, nel suo libro dei mutamenti, il Finnegans Wake, Joyce trasformerà il «padre» di Dedalo, Publio Ovidio Nasone, in qualcosa di nuovo: «Mai ovidi naso per nulla simile ai nasoni».

In quell’opera, le trasmutazioni sono la regola. Shakespeare diviene Shapesphere (un modellatore (shape) di sfere (sphere), di mondi, di globi, oppure uno che forgia paura o la paura delle forme (shapes fear?), e Adamo diviene lucrezianamente un pullulare di Atoms. La sua compagna, Eva (Eve in inglese) diventa un coacervo di possibilità, di se: ifs.
Ma non solo i nomi cambiano. Anche le cose. La città di Dublino è un gigante (Finn McCool) e il fiume che la attraversa, Anna Liffey, una donna (Anna Livia Plurabelle), le cui sponde sono i figli (Shem e Shaun), gemelli quasi siamesi (Joyce scrive soamheis, ossia «come son io è lui»).

LO STESSO CAPITA A BLAKE, il grande poeta radicale inglese dei libri profetici, anch’egli influenzato da Swedenborg, e lui stesso trampolino di lancio per l’arte visionaria di Joyce. Nel suo Jerusalem, Gerusalemme è Londra ma è pure una donna. E ad «emanarla» è un gigante, Albione (la Gran Bretagna ma anche l’uomo primordiale). Da lui poi procedono evangelicamente innumerevoli altre entità al contempo fatte di idee e materia, sorrette da una solidità incorporea. Una sorta di geografia del simbolico.

Su questa stessa strada, ma un po’ più a settentrione, ritroviamo un altro scrittore visionario, tornato in auge grazie alla conversione disneyana del suo Povere creature: Alasdair Gray. Quel libro, Poor Things, trasmutato per il grande schermo da Yorgos Lanthimos è un’altra titanica opera dei mutamenti. Uno dei protagonisti, Godwin, è chiamato God, espellendo così ironicamente quel win che ci parla di vittorie. Godwin è uno sconfitto, un perdente. Perdente perché sfida la natura, come Dedalo, e si dedica ad arti ignote, ma restandone sopraffatto.

È INVECE LA SUA CREATURA a vincere, Bella. Lei che rinasce dalla morte, con un cervello estratto da un feto e poi impiantato nel corpo di un’aitante signora. Ben presto le sue capacità cerebrali si amplieranno e così i suoi orizzonti. Fisici, ma anche geografici. Prenderà a viaggiare, e i viaggi la cambieranno. Diverrà femminista, pensatrice, e dominerà chi voleva dominarla.
Ma chi è Bella se non un’ennesima metamorfosi? È la Bella dell’Ulisse, ossia la tenutaria del bordello che cambia sesso e diviene Bello? Oppure è la serial killer ammazza-mariti Belle Gunness, norvegese immigrata negli Stati Uniti e scomparsa senza lasciare traccia? O è una lontana parente della «creatura» del Dr Frankenstein, visto che Godwin, suo «padre», rimanda a Godwin (William) genitore di Mary Shelley, «madre» di Frankenstein e «nonna putativa» della sua «creatura»?

Scambi di persona, nomi che si rimescolano, storie che si rincorrono. In questo Gray si mostra un maestro. Già in precedenza ci aveva abituato a simili mutazioni. Nel suo capolavoro, Lanark. Una vita in quattro libri, libro in cui le vedute si sovrappongono sempre , il protagonista del secondo e del quarto libro (ossia del primo e dell’ultimo, nell’ordine di lettura) si chiama Lanark. Ma Lanark è anche una cittadina scozzese. Poche anime, pochissime strade, una decina di pub, tra cui il bellissimo Wallace Cave dedicato al grande eroe noto al pubblico col volto di Mel Gibson in Braveheart.
Nell’opera, a un certo punto, nel passaggio dal secondo libro al primo (ossia dal primo al secondo, nell’ordine di lettura), percepiamo che Lanark è cambiato, o perlomeno non si chiama più così. Ora è Duncan Thaw, un giovane artista figurativo che si dedica a creare un immenso murale in una chiesa. È un murale infinito, che non può terminare perché la storia di ogni creazione è quella di un eterno e inarrestabile ricreare.

Lo stesso Gray incarnava in vita l’essenza dell’artista mutevole e proteiforme. Illustrava di persona i propri libri proprio come faceva Blake, rendendo così inscindibile l’immagine dalla parola. È qualcosa che oggi, nella nostra epoca di muri e di steccati, abbiamo dimenticato: il fatto che un artista, ossia un creatore, possa muoversi liberamente tra tanti ambiti, al punto da riuscire a far dialogare spazi anche molto distanti.

A PENSARCI BENE, quello che spesso manca oggi è proprio la capacità di librarsi in «folle volo», avrebbe detto Dante, altro esule, altro «immortalatore» di città. Lo scrisse parlando di Ulisse (Inferno, XXVI), e nella sua descrizione dell’eroe, obliquamente si percepisce, più che la condanna, l’ammirazione. Il volo è folle perché conduce e punta all’ignoto; e l’ignoto spaventa perché è celato alla vista. Ma ogni creazione, ogni invenzione punta all’ignoto proprio perché nasce dall’ignoto.
Per Blake nulla esiste che non sia prima stato sognato, e la regola vale tanto per le arti quanto per le scienze. Einstein contemplò le onde gravitazionali senza poterle captare (ci avrebbero pensato altri decenni dopo), e Joyce, assieme a tanti grandi della letteratura, fu in grado di dirci «chi siamo», perché ci spinge a vedere oltre il nostro io e oltre la nostra vista (in inglese beyond the I e beyond the eye – stessa pronuncia). Questa è la vita che si trasforma in letteratura: la «vita letteraturizzata», avrebbe detto Italo Svevo, metamorfosi onomastica di Ettore Schmitz.
Le strade della letteratura portano a cambiare e a cambiarci, perché imboccandole ci immergiamo, non solo in mondi di fantasia, com’è stato notoriamente detto, ma in geografie del fantastico, in spazi interiori, in paesaggi spiazzanti, in slarghi sempre meno stretti e angusti.

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