Il copione si ripete sempre uguale. Giuseppe Conte ruggisce in pubblico, abbassa i toni in privato e ancor più quando si arriva alla prova dei fatti. La fiducia sul decreto Aiuti, a Montecitorio, è passata liscia come l’olio: 410 voti a favore, 49 contrari. Mancavano 28 deputati 5 Stelle ma 13 erano assenti giustificati. Nel complesso, con una presenza in aula vicina al 73%, non si può neppure dire che il Movimento abbia «inviato un segnale» con le diserzioni. Lunedì prossimo, quando si dovrà votare il provvedimento, le cose andranno diversamente, i 5S si asterranno o lasceranno l’aula. Quello sarà «il segnale» ma dopo la tensione dei giorni scorsi suonerà casomai come messaggio di segno opposto: «Vorrei ma non posso».

CERTO AL SENATO la situazione è più difficile e Conte non si impegna: «A palazzo Madama vedremo». Al Senato il giochino del doppio voto non si può fare: lì il voto è unico e con la fiducia si approva automaticamente anche il provvedimento. A Montecitorio, poi, i governisti sono un nutrito drappello che conta nelle proprie file anche il capogruppo Crippa. A palazzo Madama la quasi totalità degli eletti preme invece per uscire, inclusi fedelissimi del premier come Paola Taverna, ed è molto meno ben disposta dell’omologo alla Camera anche la capogruppo Maria Domenica Castellone. Insomma quando il Senato dovrà votare il provvedimento, entro il 16 luglio, le cose saranno davvero meno semplici.

MA NONOSTANTE la suspense che cerca di creare Conte, tutto lascia pensare che anche nel secondo ramo del Parlamento il molto rumore dell’ex premier si risolverà nel solito nulla. La giustificazione ufficiale è già pronta: «Abbiamo dato tempo a Draghi sino a fine luglio per rispondere alle nostre richieste. Astenersi sulla fiducia prima di quel termine ci obbligherebbe a uscire dal governo senza aspettare la risposta». Salvo insurrezione dei senatori, che sono effettivamente esasperati ma probabilmente non al punto di disobbedire in massa, i 5S se la caveranno mettendo agli atti che senza la fiducia si asterrebbero sul provvedimento e magari registrando una percentuale di assenze decisamente superiore a quella della Camera. Un segnale, tanto per cambiare.

QUALCOSA DRAGHI è deciso a concedere, anche se non è ancora chiaro quali punti consideri accettabili e quali no. Di certo qualcosa sul Superbonus e sul Reddito di cittadinanza, forse persino sul salario minimo. Ma importante non è la lista della spesa bensì l’approccio di fondo. Le nove paginette squadernate da Conte nel colloquio con Draghi rinviano nel complesso a una richiesta tanto chiara quanto per il premier inaccettabile: un massiccio scostamento di bilancio. Quella porta resterà chiusa. In compenso palazzo Chigi e ministero dell’Economia starebbero considerando davvero la possibilità di alzare fino al 40% la tassa sui profitti extra delle società energetiche attualmente al 25%.

Non sarebbe tanto un cedimento alle richieste dei 5 Stelle quanto la possibile risposta a una necessità oggettiva. Perché, indipendentemente da Conte e dal Movimento, un modo per raccogliere i soldi necessari a fronteggiare la crisi il governo lo deve trovare. Del resto l’elemento decisivo non sono le risposte che dovrebbero arrivare da palazzo Chigi. È la disposizione dell’ex premier, in realtà contrario a uno strappo che oltretutto non è proprio nel suo carattere.

I commenti dall’interno del Pd sono eloquenti proprio perché glissano sulla politica e si concentrano sul carattere: Gli manca le pshisique du role. Non è mica Di Battista». In effetti a palazzo Chigi è stata notata persino con stupore la differenza tra i toni tranquilli e tranquillizzanti usati nel colloquio col premier e quelli barricadieri recuperati all’uscita. E a Draghi non è certo sfuggito il silenzio dell’interlocutore proprio su quello che fino a pochi giorni prima sembrava essere il fronte più incandescente dello scontro: le armi all’Ucraina. Capitolo sul quale Conte, proprio nei giorni in cui si decide il prossimo invio, si è distratto.