Marie Bracquemond, “Assiette du Service à fleurs et rubans: La Lecture”,1879, collezione privata

Il destino piuttosto agitato che ha caratterizzato Nymphes au bord de la mer di Cézanne è emblematico di quanto la natura meramente decorativa di alcune produzioni impressioniste talvolta sia stata radicalmente negata. Quest’opera, una sovraporta di 30 per 125 centimetri che il maestro di Aix realizza nel 1890 per Victor Chocquet, non solo fu distratta dalla propria destinazione d’uso, ma per motivi mercantili fu tagliata in tre parti per renderla appetibile come opere da cavalletto (i frammenti furono ricomposti solo nel 1974). Ad eccezione di rare sopravvivenze (come uno dei due pannelli decorati da Renoir per il castello di Paul Bérard a Wargemont), la maggior parte delle decorazioni di interni realizzata dagli impressionisti è stata o distrutta con lo smantellamento dei luoghi, o scorporata dal contesto originario, venendosi così a configurare come un corpus di opere insolite, maldestre ed esteticamente eccentriche.

In un testo del 1913 il critico britannico Martin Wood osservava l’inconciliabile antagonismo tra arte impressionista e decorazione, facendo perno sul fatto che la prima si discostava da ogni forma di composizione controllata. Un’affermazione, questa, coerente con la narrazione novecentesca più accreditata che vuole l’impressionismo come un’arte essenzialmente spontanea, eseguita perlopiù all’aria aperta e senza limiti di soggetto, formato e ordine. Così il lavoro decorativo degli impressionisti è stato a lungo marginalizzato dalla critica che, quando non l’ha completamente negato, lo ha declassato a produzione secondaria.

In realtà il valore del decorativo per gli impressionisti è fondamentale. Basti pensare che nel 1915 Monet definisce «Grandes Décorations» la sua ultima e più ambiziosa produzione, le serie cioè delle grandi tele di Nymphéas che in parte oggi corrono lungo le pareti ovali dell’Orangerie. André Masson, affascinato da questo «specchio d’acqua», nel 1952 considera i 90 metri di pittura di Monet «uno dei vertici del genio francese», collocandolo nella gloriosa storia di decorazione monumentale come la «Sistina dell’Impressionismo». E non è un caso oggi che sia proprio il Musée de l’Orangerie a ospitare, fino all’11 luglio prossimo, la mostra Le décor impressionniste Aux sources des Nymphéas, curata da Sylvie Patry e Anne Robbins (catalogo Musées d’Orsay e de l’Orangerie / Hazan, pp. 288, e 45,00). Una mostra che viene da più di dieci anni di studi e ricerche e che ci lascia mettere a fuoco e meglio comprendere un’altra storia dell’impressionismo, fatta di un’arte che vuole «mettre un peu de gaieté sur un mur», per dirla con Renoir.

E questa gaieté, questa allegria è proprio Renoir a mostrarla attraverso due tra i più grandi olii su tela presenti in mostra. La prima opera è Le Clown au cirque (1868), probabile decorazione per un caffè parigino vicino al Cirque d’hiver. È considerata uno dei suoi primi capolavori, dove il soggetto scelto, il clown James Bollinger Mazutreek, emerge come un’immagine forte, semplificata, dai colori vivi. Con i suoi quasi due metri di altezza l’opera colpisce anche da lontano alla stregua di un poster pubblicitario. Mentre ad altri effetti punta la seconda opera decorativa del maestro, realizzata circa venti anni più tardi, nel 1887: Baigneuses. Essai de peinture décorative. Questo saggio di pittura decorativa, mal compreso dai contemporanei, nelle intenzioni di Renoir vuole imitare la tradizione dell’affresco da Raffaello a Tiepolo, e i bassorilievi e la scultura francese settecenteschi, per gettare le basi di un nuovo corso della propria pittura, imprimendo ai nudi femminili contorni netti e scultorei sul fondo di un paesaggio evanescente.

Dal 1876 al 1881 verranno portate alle esposizioni impressioniste alcune proposte di decorazione murale. Lo fa Monet con i suoi Le Déjeuner (1873) e il non finito ed epifanico Les Dindons (1877). Oppure Caillebotte con il trittico acquatico e fortemente simbolico di Pêche à la ligne, Baigneurs e Périssoires (1878). E lo fa Degas, che espone un proprio progetto di fregio decorativo pensato ad hoc per un appartamento. Insomma, dall’accusa rivolta a questi artisti di essere dei «mezzi decoratori», al mostrarsi poi all’altezza delle nuove sfide ornamentali, il passo è stato breve. E nondimeno è stato un passo interessato, soprattutto a cogliere i momenti di visibilità donati dalle mostre per dimostrare l’ampiezza del proprio know-how e aumentare gli introiti con nuove commissioni.

Persino Manet viene chiamato in mostra. E non solo per la strepitosa Jeanne, detta Le printemps (1881), opera decorativa realizzata per l’amico Antonin Proust, che reinterpreta il tradizionale tema del ciclo stagionale attraverso una figura femminile vestita alla moda. Ma anche perché il Manet decoratore ambiva a intervenire in alcuni luoghi de l’Hôtel de Ville di Parigi, distrutto durante la Comune e in ricostruzione negli anni settanta. Sciaguratamente per Parigi la commessa pubblica non gli fu mai assegnata, ma l’impianto iconografico e sociale che Manet aveva in mente giustifica oggi molte opere del pittore, ingiustamente considerate minori dalla critica (vedi La Musique aux Tuileries), e che ora acquistano maggior senso e peso proprio al lume di una prospettiva decorativa monumentale.

Infine non si può tacere di Cézanne. La mostra offre una ricostruzione filologica attenta del grande salone del Jas de Bouffan, la casa familiare ad Aix dove il giovane Cézanne potè cimentarsi nel suo sogno di diventare artista. Dipingendo direttamente su pareti di gesso, sperimentando tutta una serie di soggetti e stili, Cézanne realizza, alla fine degli anni sessanta, un corpus di opere estremamente eterogenee, ma che avranno un ruolo determinante nel proseguimento della propria carriera. Sappiamo che il maestro distrusse molte delle sue prime tele, ma non questi dipinti murali, che per lungo tempo sono rimasti visibili nel salone, dove, ancora nella vecchiaia dell’artista, i visitatori potevano meravigliarsi delle loro dimensioni e della varietà di immagini.