Nel contesto di movimenti di diversificazione e ‘decolonizzazione’ dei curricula accademici e scolastici, anche lo studio dell’antichità greco-romana, specialmente in contesti anglofoni, è ormai da anni chiamato a partecipare a una riflessione sulle metodologie pedagogiche e di ricerca più adatte a rendere conto del divario tra l’apparente normalizzazione di pratiche oppressive (quali ad esempio schiavitù o stupro) nelle culture e nei testi antichi e la crescente attenzione e sensibilizzazione alle realtà vissute, tanto nel passato quanto nel presente, da chi è stato o continua a essere vittima di tali violenze.

Al tempo stesso, le cosiddette letterature e culture ‘classiche’ sono chiamate a rispondere del ruolo da loro giocato nell’influenzare la storia e il pensiero occidentale anche nelle sue manifestazioni più cruente, quali ad esempio l’invenzione delle differenze razziali a giustificazione della tratta schiavistica; i genocidi, le violenze e conseguenze anche odierne dei vari colonialismi europei su scala globale; l’ascesa dei regimi totalitari nel primo Novecento. Non basta – si sente dire – considerare l’uso ideologico dei classici in tali contesti come un’aberrazione da parte di ideologie di dominio: bisogna impegnarsi a riflettere su come i testi antichi tendano a normalizzare certi tipi di violenza sistemica al punto da renderci ‘assuefatti’ alla loro presenza, quasi che fossimo ‘anestetizzati’; e allo stesso tempo è necessario studiare e documentare i punti di contatto tra la storia degli studi classici e della ‘recezione’ dell’antichità greco-romana e quella dell’Europa colonialista e fascista.

Su questi due punti chiave, il recente lavoro di Maurizio Bettini Chi ha paura dei Greci e dei Romani? (Einaudi «Vele», pp. X-172, e 12,00) interviene in modo netto: non dobbiamo aver ‘paura’ della storia. Per citare un famoso passo di Walter Benjamin a cui è dedicato un capitolo del libro, non c’è da temere né il ‘cumulo di macerie’ che inevitabilmente la storia si porta dietro, né la ‘bufera’ che siamo soliti chiamare progresso. Al contrario, Bettini è convinto che sia necessario prestare seria attenzione sia agli aspetti della storia antica e contemporanea più scomodi da discutere, sia alle richieste di cambiamento e sensibilizzazione provenienti specialmente da contesti anglofoni odierni. Il volume presenta dunque strategie soprattutto pedagogiche per rinnovare un interesse verso i testi antichi, a cui l’autore propone di approcciarsi sia con un occhio storico-antropologico sia con un atteggiamento ‘simpatetico’, in una ‘riumanizzazione’ dei classici volta a occuparsi non solo dei testi in quanto testi, ma degli ‘uomini che ci vivono dentro’.

Bettini riconosce a tratti che un tale approccio ‘antropologico’ ai classici è stato rivitalizzato proprio dai movimenti di ‘decolonizzazione’ dei curricula accademici, presenti soprattutto in contesti statunitensi; eppure questo pamphlet sembrerebbe scagliarsi contro un supposto ‘movimento’ intitolato Decolonizing Classics i cui più fanatici sostenitori, a detta di Bettini, proporrebbero di censurare i testi classici nei loro aspetti più oppressivi (specialmente schiavistici o patriarcali) o addirittura di abolire del tutto l’insegnamento della disciplina, e specialmente delle lingue greca e latina. Bettini identifica alla guida di tale supposto movimento uno storico statunitense di origine domenicana attualmente di ruolo all’università di Princeton, Dan-el Padilla Peralta, famoso tra altri meriti per aver augurato la ‘morte’ della disciplina degli studi classici, qualora questa non dovesse riuscire a rinnovarsi tagliando del tutto i ponti con i retaggi del suprematismo bianco, presenti ad esempio nella forma del mito di una supremazia della civiltà occidentale. Allo stretto rapporto tra classici e suprematismo bianco Bettini stesso dedica più pagine di interesse storico e pedagogico.

Il contesto dell’augurio di Padilla Peralta, che Bettini pure riporta, è necessario però a comprendere il messaggio, che risulta altrimenti misinterpretabile in questo volume dedicato a un pubblico italiano. Padilla Peralta risponde a una collega che aveva appena decantato le lodi della ‘civiltà occidentale’: «spero che questo campo di studi, per come tu lo descrivi, muoia». Gli accademici che Bettini descrive come impegnati nella cosiddetta ‘decolonizzazione’ dei classici difficilmente si identificherebbero come allineati a un movimento intitolato Decolonizing Classics, in primo luogo perché sono generalmente attenti a non utilizzare il termine ‘decolonizzazione’, specialmente di questi tempi, senza soppesare i rischi importanti del parlare di ‘decolonizzazione’ come metafora culturale piuttosto che come un concreto processo storico-politico. Non mi risulta poi che tali accademici, Padilla Peralta per primo, parlino di abolizione o censura di testi o idee; piuttosto il loro pensiero mi sembrerebbe in linea con le stesse contestualizzazioni storiche e ‘antropologiche’ proposte da Bettini (fermo restando che la disciplina e metodologia dell’antropologia subisce a sua volta pressioni di ‘decolonizzazione’). E se si incontrano accademici che davvero sostengono di censurare passi di testi classici, o di abolire certi testi dal curriculum (è una seria limitazione di questo libro, a mio parere, non proporre a riguardo esempi concreti), di certo non bisogna, per usare i termini stessi di Bettini, cadere nella ‘fascinazione della sineddoche’ e fare di tutta l’erba un fascio.

Prendiamo l’esempio dei cosiddetti trigger warnings, sarebbe a dire avvisi (dati in forma orale a lezione, oppure per iscritto sul syllabus di un determinato corso) sul contenuto potenzialmente turbante di testi letterari o storici.

Tali avvisi non coincidono, come vorrebbe Bettini, con la ‘cancellazione’ o ‘bowdlerizzazione’ dei classici, ma se usati con giudizio sono anzi uno strumento essenziale, per quanto limitato e imperfetto, a veicolare agli studenti un messaggio non dissimile da quello proposto da questo libro: sarebbe a dire che i testi antichi includono realtà umane a cui rispondere empaticamente, e che l’insegnante riconosce la propria responsabilità nel trattare in classe di temi (quali ad esempio stupro, razzismo, schiavitù, disforia di genere) che per molti sono innanzitutto realtà vissute prima che questioni teoriche. Così interpretati, i trigger warnings diventano un invito piuttosto che un ostacolo al dialogo, un riconoscimento da parte del docente dell’umanità sì dei testi, ma soprattutto di quella dei propri studenti. Nel riportare con stupore l’affermazione di due docenti americane che ognuna delle proprie studentesse conosce almeno una vittima di stupro, se non è stata vittima ella stessa, Bettini sembrerebbe confermare quello che molte studentesse della mia generazione hanno spesso sospettato: che perlomeno nel contesto italiano, dove la stragrande maggioranza dei professori universitari di lettere classiche sono uomini, l’ignoranza maschile su quanto comune sia la realtà dello stupro ostacola la capacità dei docenti di comprendere che disagio possa provare chi si ritrova a dover discutere di stupro in classe come se fosse un argomento slegato dalle esperienze di vita vissuta.

Allo stesso modo, discussioni sul razzismo e sulla schiavitù antica (da esaminare in un confronto e comparazione con schiavitù e razzismo in età moderna e contemporanea) sono per molti colleghi e studenti argomenti di vita reale, e parlarne in relazione ai testi classici, a patto di riconoscere e rispettare il vissuto degli interlocutori, costituisce uno stimolo di interesse ai classici piuttosto che un allontanamento da essi. Bettini sottolinea giustamente le differenze storiche, sociali e demografiche tra l’Italia e gli Stati Uniti, ma trovo curioso che prospetti in un futuro, piuttosto che nel presente, il momento in cui italiani non bianchi, o facenti parte di gruppi soggetti a razzializzazione in Italia, si accosteranno agli studi classici e si gioveranno di quelle contestualizzazioni già da tempo richieste da studenti e colleghi americani. Tale momento, a mio avviso, non è altro che il presente: come dimostrato per esempio dalla creazione del gruppo Black Italians, dal rinnovato interesse alla storia del colonialismo italiano (anche nei suoi rapporti con gli studi classici), o dalle pubblicazioni di afrodiscendenti che utilizzano spesso i testi classici per parlare di afro-italianità.

È soprattutto nelle scuole secondarie, dove il corpo studentesco è più diversificato rispetto alle aule universitarie, che bisogna intervenire per stimolare la curiosità degli studenti su come i testi classici sappiano parlare, e far parlare, di problemi attuali. Questo intervento di Bettini in un dibattito vivo e importante fornisce numerose idee a docenti di lettere classiche per stimolare l’interesse dei propri studenti non solo per i testi antichi, ma anche per la storia della ‘recezione’ di questi testi. Queste idee sono, a mio avviso, del tutto compatibili con le metodologie pedagogiche di chi richiede una diversificazione dell’insegnamento dei classici e prospetta una diversificazione demografica degli studenti interessati alla materia, improntata non di certo a una cancellazione, ma a una comprensione del mondo antico e del nostro complesso rapporto col passato.