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Debra Granik lascia il segno al Sundance

Debra Granik lascia il segno al Sundance

Sundance La regista indipendente racconta il "Leave No Trace" un'America invisibile, ai margini

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 febbraio 2018

Un veterano (Ben Foster) e sua figlia (la scoperta neozelandese Thomasin Harcourt McKenzie) vivono nascosti nei boschi di un parco alla periferia di Portland come se fossero le giungle del Vietnam, fino a che non vengono scoperti e i servizi sociali cercano di reintegrarli. È Leave No Trace, di Debra Granik, regista dallo sguardo non compiaciuto, non paternalistico e non sentimentale che, come Kelly Reichardt (anche se con interessi diversi) ama il paesaggio umano e geografico dell’America piu’ remota, invisibile. Vincitrice di Sundance 2010 con Winter’s Bone, la regista del Massachusetts è tornata a Park City con uno dei film migliori del festival di quest’anno, una love story delicatissima, immersa nei verdi profondi del North West, ancorata precisi rituali di sopravvivenza e a una vocazione insopprimibile e dolorosa per i margini. L’abbiamo intervistata a New York dopo il festival.

Come Winter’s Bone questo è un film che ha un senso del posto, un’identità e un’intimità regionali fortissimi. Erano luoghi che conoscevi?

Io conosco solo la costa Est da dove vengo. Quindi, quando giro altrove, devo potermi immergere nel luogo trovare delle “guide”. Nel documentario come nella fiction. La maggior parte di noi nasce in una classe sociale, con un colore della pelle…Non si può semplicemente “vivere” l’esperienza di un altro. Quindi per un regista, un antropologo della visione, è importantissimo trovare persone attraverso cui entrare in quell’ esperienza. Ed è una delle parti del lavoro che io preferisco. Questa storia è ispirata da una fatto veramente accaduto, quindi c’erano degli assistenti sociali che l’avevano gestita, il ranger del parco che può farti vedere dove la gente vive in segreto, i teen agers entrati nel sistema di assistenza. Poi c’era un uomo che aveva cresciuto sua figlia nei boschi, per anni. Li abbiamo incontrati entrambi, per parecchie ore. Abbiamo trovato un location scout anziano, che conosceva lo stato, sapeva come parlare alle persone e come andare veramente in profondità. Per questione pratiche e di costi di lavorazione, non eravamo nelle wilderness, e lui conosceva posti speciali a sei o sette chilometri dalla citta’.….E’ come un viaggio in cui incontri nella vita reale le persone che fanno parte della sua storia. Generalmente sono molto generosi.

 Trovo molto affascinante che, nel tuo film, l’idea di abbandonare la società sia anche una scelta precisa, non solo la conseguenza di un problema sociale. C’è un’ingiustizia del sistema, ma anche una volonta’ di esistere fuori dalla societa’ organizzata.

Storicamente, quello che non è il mainstream viene patologizzato. Non capiamo perché’ qualcuno desideri avere “meno” degli altri, specialmente in una cultura come quella americana dove il significato della vita sta nelle possibilità di migliorare sé stessi. Con il tempo, quell’ideale è venuto quasi completamente a identificarsi con l’acquisizione materiale. E oggi siamo incapaci di gestire le persone che non la trovano attraente, che scelgono volontariamente di non partecipare. Pensiamo che abbiano qualcosa di sbagliato. Invece è una cosa che io trovo affascinante. E, se prendi quella decisione in una nazione liberal, fondata sul principio dell’assistenza sociale, quando arrivi al punto in cui qualcuno può decidere al tuo posto se la sua scelta non è salutare, per te o per tuo figlio? È una zona grigia molto interessante anche se nel film mi sono concentrata piuttosto sulla dimensione ideale. Ci dimentichiamo che in questo paese la tradizione utopica è molto forte. Ci sono stati movimenti e fasi della nostra storia in cui ci si è chiesti come sarebbe stato vivere con meno, comunità come gli shakers che hanno provato a esistere ai margini e a non assecondare i suoi valori dominanti.

Quell’utopia oggi è perlopiù ascritta al cliché’ romantico dei Sixties. La comune…

Perché’ siamo lobotomizzati dai Kardashian. E’ una vocazione invece che appartiene al nostro passato e al presente. La manifestazione più antica sono le comunità di montagna…Oggi sono le carovane di camper che vedi in autostrada. E include delle realtà che mi spaventano e non conosco, come i gruppi estremisti e le milizie, il cui isolamento seve per tener fuori le idee, impedire l’osmosi…Ma nella tradizione utopica a cui faccio riferimento, anche una comunità ai margini è interessata a conoscere a studiare ciò che non conosce. C’è una scena del film in cui un ragazzo, che non ha nulla e che ancora non sa cosa farà della sua vita, spiega alla protagonista che, non importa quello che succederà, ha capito che può vivere in una casa piccolissima. Oggi quello delle tiny homes è un movimento reale: gente che non sa come partecipare dell’economia perché’ non ha i soldi per farlo in modo tradizionale, e che si muove con queste piccole case portatili. Quanto posso ridurre il mio stile di vita, senza perdere la garanzia di essere al sicuro, in un luogo pulito, asciutto, e libero? Ho ritagliato un articolo recente: “Molti sono attratti dalle tini homes ma non hanno un luogo dove metterle”. Perché’ non puoi’ piazzarle in un parco nazionale, in un parcheggio di Walmart….puoi solo provare a nasconderti. In questo continente cosi’ immenso no abbiamo un posto dove mettere gente che chiede meno di 37 metri quadrati per una casa? Cosa devono fare, diventare invisibili?

L’invisibilita’ è uno dei temi del tuo film. Quella che scelgono i personaggi, ma anche quella in cui la società è solo felice di relegarli.

Senza ammetterlo.

 È vero che, rispetto alla storia originale e al romanzo di Peter Stark, nel film hai dato più spazio al fatto che il padre sia un veterano?

Sì. Il mio film precedente, il documentario Straw Dog, è il ritratto di un veterano che ha raccolto appunti incredibilmente dettagliati sulla sua esperienza in guerra e dopo, come uno scribe dell’antichità. Ci ha influenzati molto e ci ha arricchito il personaggio del padre.

 Anche qui, l’inassimilabilità’ di chi ritorna dalla guerra è un dato di fatto, e uno specchio dell’anacronismo dello scontro armato.

Oltre al veterano di Stray Dog, sono stata molto influenzata da The Evil Hours, di David Morris, un libro sul post traumatic stress disorder tra veterani, scritto in prospettiva storica a partire dalla prima guerra mondiale. E anche dal documentario inglese Soldiers in Hiding. Stray Dog spiega molto bene cose significa tornare a casa con una coscienza che non può relazionarsi al mainstream. Chi torna dalla guerra ha capacita’ fisiche straordinarie, un po’ sovraumane. Sa sparare, nascondersi – conosce sistemi di sopravvivenza antichi. Ha una coscienza iperattiva, capacità superiori; ha visto troppo e sa troppo. Quindi non è adattabile. Per i figli dei veterani, come la bambina del film, è molto difficile crescere con un enigma del genere, che attraversa depressioni orribili, non riesce a parlarne…

A un certo punto nel film, i ruoli si capovolgono. È la bambina che si prende cura di suo padre, non viceversa.

È un’idea che mi è venuta da La tempesta. La ragazzina che sa come parlargli, calmarlo, sussurrando quando lo sveglia da uno degli incubi. Un po’ come fa Miranda con Prospero.

Non pensi che la tentazione di esistere al di fuori della società sia resa ancora più forte dal questo momento politico?

Quando cercavo i soldi per fare il film alcuni mi dicevano che però c’era già stato Capitan Fantastic. Ma quella è una famiglia, con delle risorse e un pezzo di terra. Ai poveri quella libertà libertà filosofica ed esistenziale non è permessa. Quindi si diventa un po’ un fuori legge -il che mi piace. Qual è l’alternativa?, Il futuro distopico alla Hunger Games? D’altra parte questo è un paese che già adesso gestisce i problemi di popolazione mettendo la gente in carcere.

 

 

 

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