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Deborah Willis, obiettivo donna

Deborah Willis, obiettivo donnascena da "Civil War" – Deborah Willis

Fotografia Loa fotografa statunitense incentra i suoi lavori sul mondo femminile afroamericano

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 9 marzo 2019

New York, 25 febbraio 2019. Nella stanza all’ottavo piano dell’edificio al 721 di Broadway non è solo la luce mattutina che penetra dalle finestre a illuminare il sorriso di Deborah Willis (Filadelfia 1948, vive e lavora a New York), titolare della cattedra di Fotografia e Imaging alla Tisch School of the Arts alla New York University. Con orgoglio e tanta felicità, subito dopo esserci salutate, mi mostra la foto della nuora che tiene in grembo la piccola Zenzele nata due settimane fa. È la sua prima nipote, figlia del figlio Hank Willis Thomas, anche lui noto fotografo. Insieme hanno esposto nella mostra Progeny alla Columbia University nel 2009. Tra quelle di lei ce n’è una particolarmente significativa: un doppio ritratto di suo padre da giovane e, accanto, un’immagine di suo figlio nella stessa posa del nonno. «Hank Willis Thomas ha sempre adorato sfogliare i nostri album di famiglia e guardare le fotografie del passato», afferma Deborah Willis. «Inoltre, tutti avevano notato che somigliava molto a mio padre quando era sulla trentina, la stessa età di mio figlio in quella foto. È lui che ha deciso di ricreare la posa di mio padre che indossa lo smoking fuori dalla nostra casa di famiglia. Si è messo nello stesso angolo della strada, individuando l’ombra per catturare la stessa ora del giorno e ha affittato uno smoking. Lì per lì non avevo idea che i due fossero così simili. Ci siamo divertiti a raccontare storie sulla virilità nera negli anni Cinquanta. Mio padre era anche interessato alla fotografia e realizzò numerose immagini, “turistiche” e della famiglia. Vedere Thomas e Thomas come un doppio ritratto ha contribuito a far reimmaginare la fotografia attraverso le lenti di questo nuovo ritratto di famiglia. Abbraccio il concetto di trasmissione della conoscenza collegata a questa immagine».
Quali sono gli stereotipi che hai dovuto combattere come fotografa di colore, quando hai iniziato la tua carriera negli anni Settanta?
Nel 1972, quando ho frequentato il Philadelphia College of Art, nel programma di fotografia c’erano solo tre donne – due erano afroamericane – e diciotto uomini, nessuno dei quali di colore. Mi dovetti confrontare con un professore bianco che mi disse che ero una studentessa che «stava occupando lo spazio di un onesto uomo bianco». Era la prima volta che incontravo sessismo e razzismo in modo così esplicito. Ma ricevetti anche il sostegno di professoresse e studenti che mi incoraggiarono a seguire i miei interessi. «Se le tue sono storie incentrate sulle donne, sull’attivismo e sulle persone di colore, fallo!», mi dissero. Ed è quello che ho fatto.
La scoperta del valore dell’immagine fotografica, in senso estetico e nelle sue diverse declinazioni di valenza sociale (inclusa l’affermazione identitaria), appartiene alla tua infanzia, quando nel beauty shop di tua madre a Filadelfia sfogliavi riviste come «Ebony», «Life», «Look»?
Sì, la narrativa è sicuramente legata all’esperienza di essere cresciuta nel salone di bellezza di mia madre. La mia fotografia è ispirata alla lunga storia dello storytelling delle tradizioni afroamericane, ma anche all’idea di narrazione visiva. Quando ero studentessa, sia al Philadelphia College of Art che alla scuola di specializzazione della Pratt, amavo lavorare sull’immaginario di storie che parlassero di gioia e bellezza. Se ripenso a quel periodo, nel salone di bellezza, ricollego quelle storie a miei amici, come l’artista Carrie Mae Weems, ma anche ad altri che non avevo conosciuto nel salone di bellezza. L’intenzionalità del mio lavoro riguarda davvero la ricerca di storie gioiose sul piacere, sulla bellezza e sulla famiglia. Crescendo ha continuato a piacermi il sedere sul pavimento e ascoltare le donne parlare delle loro vite, delle loro speranze e delle loro delusioni. Ero giovane ma avevo capito che c’era qualcosa d’importante nelle esperienze di quelle donne, iniziando a notare anche che c’era un legame con il mio lavoro. Quando guardavo le riviste avevo un forte desiderio di immaginare la vita delle persone fotografate e volevo fare fotografie come quelle pubblicate su quelle pagine. In seguito fui molto determinata nel voler incontrare i fotografi che avevano realizzato quelle immagini potenti, come Moneta Sleet Jr, Gordon Parks, Morgan e Marvin Smith.
A proposito dell’attività femminile possiedi una collezione di «quilt», le coperte patchwork che rappresentano anche la prima espressione artistica delle donne americane…
La mia famiglia faceva quilt. In Pursuit of Beauty, il libro che raccoglie le mie fotografie dentro gli armadi della gente, c’è anche la fotografia di un quilt che ho cucito io. Il titolo è Daddy’s Ties. Quando mio padre è morto, qualche anno fa, ho creato una connessione con il suo passato e la sua memoria assemblando e cucendo tra loro le numerose cravatte che gli erano appartenute – nella sua vita era stato sarto e anche poliziotto – insieme alla fotografie che lo ritraggono in epoche diverse, anche prima della mia nascita.
Uno dei tuoi primi mentori, oltre a Roy DeCarava con il libro «The Sweet Flypaper of Life» (1955), è stato Gordon Parks. Qual è per te la forza delle sue immagini e quale il tuo ricordo che risale al 1972, quando gli scrivesti una lettera chiedendogli di incontrarlo per parlare del suo lavoro?
Roy DeCarava e Gordon Parks sono stati i miei mentori ancora prima che sapessi che lo fossero. Di The Sweet Flypaper of Life, che ho scoperto da ragazza, mi interessava il modo in cui gli autori, DeCarava e Langston Hughes, avevano creato una storia sulla comunità di Harlem attraverso immagini, testo e vita familiare. Quanto a Gordon Parks mi ha aperto la sua casa e ha ascoltato il mio interesse nel voler diventare fotografa, mentre gli facevo domande sui momenti della sua vita e sul suo modo di catturare immagini. Foto, alcune delle quali sono diventate iconiche, che mi facevano letteralmente fermare il cuore. Gordon aveva un amore per la moda e il rispetto per la bellezza. Credo che nella sua produzione di immagini non abbia mai considerato il «bello» come passivo, ma attivo e continuo. Gli scrissi una lettera nei primi anni Settanta e nel 1975 lo intervistai. Nella mia lettera l’avevo informato che ero una studentessa e volevo scrivere un articolo sulla sua fotografia. Gordon Parks è diventato il mio mentore ufficialmente dopo quel primo incontro e nel corso degli anni, dal 1975 fino al giorno della sua morte, è sempre stato parte della mia vita. Mi ha incoraggiato mentre fotografavo e lavoravo come curatrice, nutrendo il mio interesse non solo verso le mie immagini, ma anche nel preservare e collezionare quelle di altri fotografi. Del lavoro di Gordon mi sono occupata molte volte. A maggio sarò all’American Academy di Roma per lavorare sulle bellissime fotografie che ha scattato per Life a Roma, nel 1949, fotografando anche i pittori di Via Margutta.
L’esplorazione e la restituzione del ruolo dello sguardo dei fotografi neri nella storia americana è stata una vera e propria missione fin dalla tua prima pubblicazione «Black Photographers, 1840-1940: An illustrated Bio-bibliography» (1985). Oggi l’urgenza è quella di affrontare il tema di donne e migrazioni?
Di nuovo la narrazione è al centro delle mie pubblicazioni e mostre. Sono ispirata dalle storie individuali che sono sia universali che private e dall’umanità delle nostre vite. Sono curiosa di ciò che ci coinvolge nei momenti difficili e in quelli gioiosi. Mi sono occupata dei primi fotografi che volevano celebrare la vita dopo la schiavitù, documentando il quotidiano della vita di neri. Sto anche lavorando a un libro sulle immagini dei soldati neri, delle infermiere e delle insegnanti nere della guerra civile. Un tema che ho affrontato anche da un altro punto di vista, quando nel 2018 sono stata invitata a interpretare visualmente una canzone di Joan Baez. Ho scelto Civil War. Ne è nato un video in cui ho proiettato immagini d’archivio sui corpi dei ballerini (Johnson e Kevin Boseman) che, indossando abiti del XIX secolo hanno creato i movimenti della danza in base alle immagini stesse. Un lavoro che incarna lo spirito, l’esperienza della guerra stessa. Il progetto a cui fai riferimento, invece, è stato un simposio e anche un libro in corso di pubblicazione – Women and Migration – in cui viene esaminato il ruolo della fotografia, dell’arte, del cinema, della storia e della scrittura nell’identificare e ricordare le attività migratorie delle donne. Un’esplorazione dei concetti di luogo, memoria, globalizzazione e arte, fotografia e mobilità, scrittura di viaggio e modi di mangiare, esperienze di rifugiati, diaspora, valichi di frontiera, schiavitù e migrazioni involontarie, dislocamento, matrimonio, piacere, amore, politica, guerra e storie di famiglia.

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