Icona della scene proto punk e dell’avanguardia newyorchese degli anni 70 attraversata dai Ramones, Talking Heads, John Lurie e gli altri in orbita CBGB. Front-woman dei Blondie, musicista e icona fashion immortalata da Andy Warhol, Deborah Harry per gli amici Debbie, è personaggio trasversale e cross-over nella cultura pop, capace di passare dai club dell’East Village a Carnegie Hall via Coachella, e di lasciare un segno profondo come influencer di moda e stile. Col compagno e collaboratore Chris Stein ha firmato in 11 album targati Blondie numerose hit anni 80 e della scena Art-New Wave degli ultimi quattro decenni. Nel cinema ha lavorato da attrice come collaboratrice di Cronenberg e John Waters, Scorsese e Basquiat – una figura fondativa insomma dell’avanguardia artistica e musicale newyorchese oggetto di forte rivalutazione, come nel documentario che Todd Haynes ha appena dedicato ai Velvet Underground. L’ultimo progetto è Blondie: Vivir en la Habana, un cortometraggio diretto da Rob Roth, lo stage designer dei Blondie, che documenta alcuni concerti fatti dalla band all’Avana nel 2019 – un quasi «found footage» girato in una grana vintage e super satura da Kodachrome Super 8 che bene si accorda con la struggente fatiscenza della capitale cubana. Quando le parliamo via Zoom dalla sua casa in New Jersey ci spiega che le ha ricordato la Lower East Side pre-gentrificazione che negli anni 70 ha lanciato al sua carriera.

Perché la tournée all’Avana documentata nel film?

Da anni volevamo farlo. Ovviamente c’entra tutta la storia dei rapporti fra Cuba e gli Stati uniti e quella che definirei la «spazzatura» politica che si è accumulata in tutti questi anni, durante i quali la mia ammirazione per il popolo e la cultura cubana è solo cresciuta. È un territorio molto piccolo rispetto agli Usa, eppure la loro identità e la profondità della cultura è stupefacente. D’altro canto so anche per esperienza personale che a volte le difficoltà della sopravvivenza contribuiscono a rendere una cultura tanto più importante e vitale. E poi ho sempre amato la musica e la danza cubana. Mi piacerebbe tornarci magari per registrare e girare il paese, fare concerti con studenti e bambini, sperimentare la vita quotidiana laggiù

Si ricorda la prima volta che ha sentito una sua canzone alla radio?

Me lo ricordo molto bene, stavo camminando sulla 21ma strada fra la nona e decima avenue ed è passata una macchina coi vetri abbassati e sulla radio suonava della musica. Mi sono girata verso Chris e gli ho detto ‘Wow, mica male quella canzone’, e lui guardandomi mi ha detto ’Guarda che quella era Rip her to shreds’ – era la mia canzone! Non l’avevo riconosciuta. Ma mi era subito piaciuta! (ride, ndr)

Con Blondie siete partiti per essere trasgressivi?

Beh, sì certo: volevamo rompere un po’ gli schemi. Volevamo evitare il solito modello di band coi ragazzi e i loro lunghi assoli di chitarra e la grandiosità che in quegli anni caratterizzava molta musica. L’idea era quella di ridurla più agli elementi fondamentali e forse riportarla verso gli inizi degli anni 60, ad un pop differente. Credo che tutto il punk rappresentasse un certo ritorno all’essenzialità del passato, per così dire. Quanto a trasgressione, oggi bisognerebbe essere come Cardi B (ride, ndr)

Velvet Undergroud, il doc di Todd Haynes, ha riportato molta attenzione sul fermento di New York negli anni 60 e 70, e l’influenza culturale che continua ad esercitare….

Ho un ricordo molto caro di quel periodo della mia carriera e della mia vita. Quando è successo l’11 settembre l’unica cosa che sono riuscita a fare è stata stendermi sul divano e pensare ‘Dio mio vorrei che fossero gli anni ‘70’. Mi era venuta una grande nostalgia per quel decennio con tutta la sua depressione economica ma anche tutta la sua carica creativa…Sono fortunata di avere avuto le mie radici in quell’ambiente. Ho guardato solo una clip del documentario di Todd Haynes, che fa sempre cose meravigliose: quella dove John Cale parla della sua teoria sugli armonici e lo trovo geniale. I Velvet erano fra i miei gruppi preferiti.

Potrebbe iniziare oggi la sua carriera, con tutto il contorno e gli strumenti tecnologici del caso?

Una delle fasi più importanti del mio sviluppo creativo è stato quello in cui nessuno mi guardava e quindi ho potuto sperimentare senza avere addosso la pressione del grande pubblico o dei media. Trovo che la tecnologia possa anche essere di grande aiuto. Con Blondie siamo stati fra i primi ad incorporare sintetizzatori e i tutti i tipi di effetti sonori che si possono produrre non solo in studio, ma dal vivo. Detto questo è un arma a doppio taglio. Non sono certa che se fosse oggi deciderei di seguire una carriera musicale. La tecnologia ha livellato tutto: con un computer e un po’ di pazienza chiunque può metter giù una traccia ritmica e sopra una piccola linea melodica. Tutti hanno l’opportunità di essere musicisti. La tecnologia è fantastica e per la maggior parte ha migliorato le nostre vite – sui social media invece ho qualche dubbio (ride, ndr).

Qual è il suo rapporto col pubblico?

Una delle grandi fortune della mia carriera e della mia vita musicale sono stati gli anni di performance nei piccoli club – soprattutto i primi – e l’intimità che hanno reso possibile. Il pubblico era proprio lì, inevitabile, e tu lo dovevi in qualche modo riconoscere, interagire. È stata una lezione importante. Agli inizi ero molto timida quando salivo sul palco, ma quando ho capito che stava a me suscitare una reazione da parte degli spettatori è stato un momento chiave della mia formazione come performer.

Si riconosce come icona femminista?

Credo di essere sempre stata una donna indipendente, e una persona abbastanza testarda. In generale mi sembra che le donne americane ed europee vivano abbastanza bene con l’opportunità di perseguire diversi tipi di vita. In altre parti del mondo invece si continua ad abusare delle donne emotivamente, mentalmente ed intellettualmente. Mi auguro davvero che questo possa presto cambiare.

Quali figure femminili sono state importanti per la sua formazione?

Molte…migliaia…Molte donne che nessuno conosce, come alcune mie maestre di scuola, vere, gentili e generose. Credo che una certa generosità di spirito sia una qualità che le donne hanno forse più degli uomini. Poi in ambito professionale ho sempre ammirato molto Cher che nella carriera e nella vita ha saputo andare da zero a mille con grande talento e anche con un gran senso dell’umorismo. Credo che questo dimostri la sua genialità.

…ed ha spesso citato Anna Magnani…

Sono stata sempre molto influenzata dal grande schermo, anche se non conoscevo l’industria come la conosco oggi. Ed ho sempre amato Anna Magnani – un’attrice straordinaria ed una donna di grande coraggio. Non solo per i ruoli che ha interpretato, ma per la fragilità e la profondità che ha saputo esprimere in modo così bello. Non era solo una star in senso hollywoodiano come Gina Lollobrigida o Sofia Loren, era una vera attrice di enorme passione. E queste per me sono qualità fondamentali.