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Debito e Pil nell’austerità

Nuova finanza pubblica In una ricerca datata marzo 2013 due studiosi, I. Ortiz e M. Cummings, documentano l’impatto di politiche di taglio alla spesa pubblica e sociale in tutto il mondo, mostrando come l’assottigliamento dei bilanci colpisca in vari modi l’80% della popolazione mondiale nel 2013, arrivando al 90% nel 2015

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 23 agosto 2014

Il Pil italiano è calato, smentendo le previsioni del governo Renzi: l’Italia è in recessione. Ma anche gli altri paesi dell’Unione europea vanno male. Così si potrebbe sintetizzare il dibattito economico degli ultimi venti giorni, dal 6 agosto quando sono usciti i dati Istat sul Pil che sancivano l’erroneità delle previsioni dell’esecutivo («avevano ragione i gufi» commentava già una settimana prima l’economista Emiliano Brancaccio all’Espresso, in merito alle stime della Banca d’Italia e del Fondo monetario) fino a quando non sono arrivati quelli di Germania e Francia, anch’essi poco entusiasmanti. Immaginiamo i sospiri di sollievo dell’area governativa – per quanto il premier si affretti a puntualizzare che «mal comune mezzo gaudio» non vale in economia.

Il panorama andrebbe arricchito tuttavia dalla notizia della pubblicazione del Supplemento al bollettino statistico della Banca d’Italia del 13 agosto scorso. Fra i vari dati di finanza compare l’ammontare aggiornato del debito pubblico, che come notava correttamente Marco Bertorello su queste pagine la settimana scorsa, è cresciuto ininterrottamente dal governo Monti in poi; l’odierna pubblicazione ci restituisce la cifra di 2168 miliardi di euro a giugno 2014 (quando, per fare un confronto, nel 2012 era a 1989 mld).

Come nota lo stesso Brancaccio in una intervista successiva, tali dati si collocano ancora in un panorama di austerità che dura oramai da anni. Non solo per l’Italia ovviamente: in una ampia ricerca datata marzo 2013 due studiosi, I. Ortiz e M. Cummings, documentano l’impatto di politiche di taglio alla spesa pubblica e sociale in tutto il mondo, mostrando come l’assottigliamento dei bilanci colpisca in vari modi l’80% della popolazione mondiale nel 2013, arrivando al 90% nel 2015. Ma se l’integrazione globale delle economie ha reso il contagio della crisi assai diffusiva e rapida, l’Unione europea la vive con la particolare aggravante dei suoi squilibri istituzionali. Assume un significato veramente simbolico che nello stesso articolo del Trattato di Funzionamento dell’Unione, art. 119, si trovi nel primo comma la sacralizzazione di «un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza», nel terzo l’obiettivo di «prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane» (nel secondo c’è l’euro…); sia il capitalismo che la sua sponda contabile-istituzionale in salsa burocratico-europea.

La crisi in europa non è stata solo rafforzata e aggravata dagli squilibri del sistema istituzionale e monetario, ma dagli stessi provvedimenti (nominalmente) diretti a contrastarla. Dal 2010 si è avuta una serie di testi normativi che configurano la “nuova governance europea” caratterizzata in modo inequivoco verso un irrigidimento degli spazi di manovra degli Stati e dei parlamenti nazionali. La Ue è diventata come un condominio in cui nessuno si fida più degli altri e si fissano regole occhiutamente puntigliose per controllarsi a vicenda. I risultati sono una spinta alla compressione della spesa con i prevedibili effetti recessivi. Se i paesi più forti, in primis la Germania, si avvantaggiano di tale torsione regolamentativa, i risultati odierni paiono indicare che impoverire la periferia si ripercuote anche sul centro: finita la benzina dei consumi a debito, l’economia teutonica sega il ramo su cui è seduta.

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