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Debenedetti, trent’anni di sentimenti brevi e feroci

Debenedetti, trent’anni di sentimenti brevi e ferociCesare Tacchi, Coppia felice, 1966, Collezione Maramotti

Tutti i racconti da Bompiani I personaggi di Debenedetti sono prelievi chirurgici dalla realtà, in cui un dettaglio sgradevole è chiave d’accesso o di rovina. L’intero corpus ’81-2011, con qualche potatura, a cura di Cesare De Michelis

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 15 ottobre 2017

«Antonio Debenedetti scriveva versi e qualche pagina di prosa. Andavamo insieme da Niccolò Gallo; e io, un pomeriggio lessi a Niccolò qualcosa di Antonio, con Antonio che tossiva e fingeva di interessarsi, come se nella vita non vi fosse altro, agli acquerelli di Marcucci» appesi alle pareti. Il ricordo si deve a Enzo Siciliano: dalla visita dei due giovanotti, negli anni cinquanta, a quel maestro della critica e dell’editoria, Antonio Debenedetti è diventato uno dei pochissimi scrittori italiani quasi esclusivamente dediti alla forma del racconto: nel catalogo delle sue opere il romanzo, benché ammirevolmente provato, è quasi occasionale. In coincidenza con i suoi ottanta anni esce nei «Classici Bompiani» Racconti naturali e straordinari (a cura e con limpida introduzione di Cesare De Michelis, pp. XXXIV-488, € 50,00). Il titolo risale al 1993, ma la sistemazione attuale deriva, con qualche potatura, da sette libri pubblicati in un trentennio, lasciando da parte gli esordi, nei quali si crede che l’autore più non si riconosca, sbilanciati com’erano nell’inseguimento di maestri estremi di stile come Manganelli. Però restano profetiche le parole di Caproni nel presentarne il libro giovanile in versi: «funghi anzichenò velenosi nati nello sfasciume» còlti dalla «sua intelligenza corrosiva più che costruttiva, e irregolare e pungente» e senza abbandoni.
Dal 1981 di Ancora un bacio al 2011 di Il tempo degli angeli e degli assassini, passando, oltre che per il titolo ora ripreso, per Spavaldi e strambi (1987), Amarsi male (1998), E fu settembre (2005), In due (2008). Un libro nuovo che ha il merito di presentare in un corpus unico quarantatre racconti che, sia detto sùbito, paiono tra i più belli e riusciti tra quelli scritti nella nostra lingua nel secondo Novecento, e che si articolano come quadri in una galleria: che è necessario guardare uno per uno ma anche con uno sguardo complessivo, col quale si scorge un paesaggio che va dagli anni trenta ai giorni nostri. Della difficile arte del racconto – che richiede una precisione millimetrica, una vocazione all’esattezza, proprio come la poesia – Debenedetti dà prove esemplari di come si tratti di una forma capace di raggiungere in poco spazio il nucleo delle cose, siano personaggi, situazioni, caratteri, sentimenti, snodi storici.
L’assenza di gioia
Nella prima edizione Amarsi male, un capolavoro di concentrazione e di rapidità, recava come sottotitolo «undici sentimenti brevi». Si potrebbero eleggere il titolo e il sottotitolo di allora a sigla dell’intero corpus di adesso (e anche dei romanzi che ne restano esclusi). I sentimenti dei racconti di Debenedetti non sono buoni sentimenti; la nota dominante è l’assenza di gioia, con un’aggiunta di ferocia frequente in personaggi che sono prelievi chirurgici dalla cosiddetta realtà, nella quale un dettaglio sgradevole è la chiave di accesso o, più spesso, di rovina. Tali dettagli sono fissati e poi infilzati, lasciati a mostrare la dura sostanza dei rapporti interpersonali che richiamano a contesti riconoscibili da pochi segni, per accenni antropologici (ovvero come evidenze immediate di questioni di lunga durata nel carattere degli italiani). Però i dettagli sono anche un ritmo e una punteggiatura: un modo di scandire il tempo; e sono anche gli aggettivi che danno vita al discorso, lo fanno di una particolare intonazione. Anzi i dettagli sono il diapason o la scala: da lì si declina la narrazione. Avvertono il lettore che sta per succedere qualcosa.
Così la brevità delle pagine di Debenedetti è paradossale. È vero: i racconti si accendono e si chiudono rapidamente, come razzi che illuminano momentaneamente perlopiù un malessere o un disagio, come sempre le partecipazioni stranite e stranianti a eventi osservati insieme da vicino – quasi in sovrapposizione – e da una infinita distanza, da un distacco irrimediabile; ma sono racconti costellati da luminarie nascoste e improvvisamente rivelate. Così tutto sembra muoversi da una memoria che non sa cancellare: selezionare sì, ma non cancellare: per questo Debenedetti è anche un eccellente memorialista, come si evince da tanti suoi articoli e da quel miracolo di rievocazione che è Giacomino, intensamente climatico nella capacità di evocazione della figura del padre.
Un dettaglio può dare euforia e innamoramento; oppure distacco e ripulsa. In ogni caso, un dettaglio dà conoscenza, consente di identificare, attribuire, giudicare: costituisce il punto profondo e generativo, e insieme il punto più evidente e visibile della pagina. I dettagli si insinuano improvvisi e si sa che ne dipendono la trattazione, lo sviluppo e la forma stessa. Pieni di vita, segnano il più spesso un disgusto per l’inautenticità, considerando forse, come osservava Valéry, che «il gusto è fatto da mille disgusti».
Fedeltà alla letteratura
Prima e dopo Amarsi male, libro spartiacque dove la pratica del racconto diventava maestria, Debenedetti ha condotto un esercizio di scrittura particolarissimo che consiste nella fedeltà alla letteratura (alle opere dei grandi scrittori del Novecento di lingua italiana – Landolfi e Soldati più ancora che Moravia –, non meno che agli americani e ai francesi) per scoprirvi momenti di disagio, crepe dove ha intravisto ogni volta l’occasione per raccontare, creando attese e bruciandole per concludere (la riuscita di un racconto si vede spesso dalla fine). Fedeli alla lettera, mai metaforici, i suoi racconti mostrano il fuoco che si spegne e soprattutto le ceneri che restano. Accanto agli scrittori, Debenedetti deve considerare uomini di pensiero alcuni maestri del cinema dalle visioni ossessivamente controllate: frequentatori dell’insensatezza come Buñuel (Bella di giorno) o del controllo ossessivo e nevrotico, ma ludico, della realtà, soprattutto della realtà immaginata e costruita da un luogo oscuro (Hitchcock) o della deformazione portata fino alla caricaturalità (Fellini). Ma nonostante tanta esperienza di letteratura e di cinema, Debenedetti non è mai uno di quegli scrittori che giocano con l’allusività: ha massima considerazione del passato, la sua testa è piena di memorie e aneddoti, ma, quando sulla pagina comincia a scrivere un racconto, tutto rimuove, e, dove necessario, tutto rende strumentale all’efficacia del raccontare, lasciando emergere il massimo di chiarezza da una procurata oscurità: e l’ultimo gesto della mano, che muove il bulino, segue i tanti gesti precedenti, con i quali si è provveduto a far fuori il grosso. Debenedetti ha deciso di scrivere poco e con una lentezza d’altri tempi al servizio della rapidità: poche pagine ogni volta, ben concentrate. Ma la summa adesso desta impressione per quanto di vita o non vita vi è stato riversato come materiale primario.
La situazione ebraica dopo le leggi del 1938 (E fu settembre) o la vicenda di un terrorista (Un pentito) parlano dell’Italia non più che racconti come Via Nebuloni, sulla vicenda postuma di un mediocre latinista, o delle pagine dedicate a La compagna dell’intellettuale: una riprova è nel come la lingua di Debenedetti, fedele a un’idea di prosa fondata sui maestri degli anni di formazione, sia naturalmente a proprio agio con registri ben sintonizzati sui tempi (Cara signora Wilma, dedicato alla posta di un giornale femminile; Call center, sui «fratelli chic dei guardoni», ovvero gli «ascoltoni»). Gli esempi di riuscita sono facili da trovare, ma questi Racconti naturali e straordinari (il confine tra l’uno e l’altro aggettivo è stavolta indecidibile) sono così necessari nel loro insieme che scegliere forse non è necessario.

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