Deb Olin Unferth, e le antiche galline si liberarono
ALTRI MONDI Una intervista con la scrittrice statunitense a proposito del suo romanzo «Capannone n. 8», edito da Sur. La storia si svolge nell’Iowa, in un allevamento intensivo di ovaiole, tra crudeltà e segregazione. «Crediamo di possedere tutto sul pianeta, compresa l'acqua, il cielo, la terra, le altre creature. È questo l'errore colossale e il grande male della nostra specie»
ALTRI MONDI Una intervista con la scrittrice statunitense a proposito del suo romanzo «Capannone n. 8», edito da Sur. La storia si svolge nell’Iowa, in un allevamento intensivo di ovaiole, tra crudeltà e segregazione. «Crediamo di possedere tutto sul pianeta, compresa l'acqua, il cielo, la terra, le altre creature. È questo l'errore colossale e il grande male della nostra specie»
«Come tutte le creature tornano prima di partire in cerca di qualcosa di più, così fanno le galline, per marcare il territorio con i loro occhi. Che sia per istinto, biologia, psicologia, spiritualità – tutto fuorché intelletto – è questo che fanno tutte le creature viventi: guardano indietro». Il romanzo di Deb Olin Unferth, Capannone n. 8 (Sur, pp. 355, euro 18, traduzione di Silvia Manzio) ha il vento di una rivoluzione, fra le parole, sia pure il tema al centro della storia verta sugli allevamenti intensivi di ovaiole.
L’intenzione della scrittrice statunitense, docente all’Università del Texas con all’attivo già due romanzi e due raccolte di racconti (ancora inediti in Italia), è ispirata da una utopia sia politica che culturale nei confronti della rappresentazione delle galline – e dei polli in generale – che diventano sineddoche per raccontare cosa siano segregazione e libertà desiderante. «Credo che tutto ciò che siamo – racconta Deb Olin Unferth – ovvero la nostra storia, i nostri antenati – sia contenuto in noi stessi, sì». La memoria inscritta nei corpi, umani e non, è tuttavia imperfetta e i destini di Janey, Cleveland, Annabelle e Dill, interrotti e nuovamente avvinti nella stessa parabola malandata, si incontrano nell’Iowa all’interno della Fattoria Felice della famiglia Green.
I riferimenti letterari che si interrogano sui polli sono numerosi, da Annie Potts a Clare Druce, «di recente ho letto però anche Agustina Bazterrica, una scrittrice argentina, e il suo Tender is the Flesh, sorta di fantasy sci-fi sui mattatoi. Peter Godfrey Smith e il suo Altre menti. Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza (in Italia per Adelphi, ndr) è però quello che ho amato di più».
Da dove nasce la storia di cui parla nel suo romanzo?
La gallina ovaiola è industrialmente l’animale più sfruttato del pianeta. Ho studiato e appreso come vivono rinchiuse in piccole gabbie dentro enormi capannoni per tutta la vita, come gli allevatori strappino loro la punta del becco per evitare che si feriscano a vicenda, quanto sia rumoroso e terrificante in quei fienili. Poi una notte ho avuto una visione, simile a quella che avrà Janey nel romanzo.
Si trattava allora del valore di un’intera fattoria di polli, un milione o forse di più, che lasciavano una fattoria industriale. Ho visto nella mia mente le porte di quella stalla aprirsi, i tetti che si scoperchiavano e uscivano dagli stabilimenti e le galline che andavano via, camminando, volando, correndo. Sapevo di dover scrivere la storia di quella immagine.
Non volevo però farne una polemica o un testo sui diritti degli animali. Del resto, le informazioni sulla crudeltà sofferta sono già disponibili. Desideravo invece attrarre lettori e lettrici come parte dell’ingranaggio narrativo e prossimi ai personaggi, magari improvvisamente trovandosi a fare il tifo per le galline, imparando a conoscerle, nelle loro caratteristiche e abilità, ad amarle e capirle, rimanendone sorpresi.
Prima di scrivere «Capannone n. 8» ha condotto molte ricerche e si è documentata. In che modo?
Ho studiato per qualche anno, avevo bisogno di vedere i capannoni e parlare con chi li gestiva. Sentivo la necessità dei loro punti di vista e di osservare di persona che aspetto avessero le gabbie, come vivevano le ovaiole, se avessero avuto la possibilità di scappare. Negli Stati Uniti, generalmente non è consentito a chiunque visitare gli allevamenti intensivi. Ho dovuto fare un bel po’ di richieste e persino inventarmi alcuni trucchi per poterci entrare.
È stato emozionante fare del giornalismo investigativo, cosa che non avevo mai intrapreso prima. Ho anche dovuto conoscere i polli, passare del tempo con le galline anzitutto interrogando la loro storia antica e risalendo a più di cinquanta milioni di anni fa, indagarle scientificamente. Dovevo ascoltarle, guardarle, sedermi accanto a loro.
E mi sono documentata sulla storia del movimento per i diritti degli animali, ho preso contatti con molti attivisti, ho ascoltato e imparato da loro, ho guardato ore interminabili di filmati che avevano registrato. Ho finito per scrivere un lungo saggio per Harper’s Magazine sulle mie scoperte («Cage Wars. A visit to the egg farm», 2014, ndr).
Narra un patto tacito di liberazione collettiva, è animale ma è anche una preghiera di sovversione. Quanto è importante e politico, per i suoi personaggi e non solo, sentirsi parte di una comunità di viventi?
Non sono mai stata a mio agio con il modo in cui, come umani, ci autorappresentiamo separati dalle altre creature, superiori. Anche molti sostenitori del benessere animale credono che comunque deteniamo il diritto di dominarli, usarli, anche se dobbiamo essere gentili con loro.
Mentre facevo ricerche, ho iniziato a pensare a quanto siamo vicini ai polli e quanto abbiamo in comune con loro, come anche noi – per esempio – siamo emersi dalle foreste da dove un tempo vagavamo, come anche noi siamo prigionieri del sistema che abbiamo creato. Non credo nel diritto e privilegio di sentirci proprietari delle loro esistenze, fanno invece parte della nostra comunità e noi siamo parte della loro. Sono liberi. Gli esseri umani hanno invece un grosso problema a «garantire» la libertà: a chiunque, agli animali e ai propri simili.
Quando Janey comincia il suo lavoro nella fattoria si rende conto delle reali condizioni in cui le galline vivono e il suo sguardo muta, così come le sue intenzioni si trasformano. Janey l’ho pensata come una sorta di spettatrice immaginaria, dunque le ho attribuito alcune peculiarità tra cui l’incredulità riguardo alla immediata dignità che si deve riconoscere alle galline. All’inizio, lei è incline a essere un po’ comprensiva nei confronti dei polli in generale, ma non è un’attivista, non è vegetariana e nemmeno vegana, non si cura più di tanto della questione. Quando però riesce a vedere da vicino diventa più empatica. Dopo la visione della loro liberazione, inizia a considerarle cittadine del mondo, in lotta per la libertà. È una lotta è urgente perché ha a che fare con l’impianto stesso della industria moderna.
Lei usa spesso riferimenti filosofici, talvolta impliciti, come quello del mito platonico della caverna. Cosa accade nel suo romanzo quando il varco si apre alla luce, dopo aver conosciuto solamente il buio e le catene per l’intera propria esistenza?
Credo che a un certo punto gli umani guarderanno dietro di sé, a come abbiamo trattato gli animali non umani e tremeranno di vergogna e disperazione. Il grande errore è che crediamo di possedere tutto sul pianeta, compresa l’acqua, il cielo, la terra, le altre creature. È l’errore colossale e il grande male della nostra specie. Un giorno usciremo dalle nostre caverne e vedremo cosa abbiamo fatto. Nel libro invece questa fuoriuscita è quella dalle gabbie, dopo aver vissuto tutta la loro vita sotto la luce artificiale e stando in piedi su un filo, senza mai vedere il cielo. Le galline scorgono il mondo per la prima volta – aria, erba, alberi, il sole – e all’inizio hanno paura. Poi capiscono, riuscendo a creare un nuovo corso più libero.
Scrive che è il tempo per misure estreme, cosa intende e quando arriverà?
Il momento è adesso. Dobbiamo cambiare il modo in cui viviamo, deve avvenire a un livello individuale, personale. Non possiamo proseguire con l’allevamento industriale di animali. Dobbiamo cambiare il modo in cui mangiamo. Non dovremmo per esempio mangiare animali. Dobbiamo usare molta meno plastica e non possiamo scaricarla nell’oceano. Non penso che si possa salvare il nostro pianeta, ma possiamo forse farlo noi, almeno sotto il profilo spirituale, vederci parte di esso sottraendoci dalla mentalità del dominio.
È la fondatrice di «Pen-City Writers», una scuola di scrittura creativa per detenuti in un carcere texano di massima sicurezza. Che significato ha per lei questo lavoro?
È una parte importante della mia esistenza, insegnare in prigione. Qui negli Stati Uniti le pene detentive sono lunghe e le condizioni spesso barbariche. I miei studenti vivono in gabbie. Spesso non sono autorizzati a uscire dalle celle per settimane. Sono in carcere da decenni e le loro esistenze sono distrutte.
Passo molto tempo a pensare alle somiglianze tra il modo in cui vengono trattati gli animali da allevamento e il modo in cui vengono trattati i carcerati. È tutto un prodotto dell’era industriale, che, nonostante tutte le invenzioni e i progressi compiuti, sembra anche essere il punto in cui gli umani hanno preso una strada sbagliata.
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[Sullo stesso argomento si può leggere anche un articolo di Arianna Di Genova, Quel che non sapete sulle galline]
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