«Death to living», l’arte interroga l’ambiente e si fa politica
Ordine, prescrizione, storia e tante domande: perché la plastica è così inquinante? Quali sono i rifiuti che invadono le spiagge di New York? Come cambia l’habitat di fauna e flora con l’accumulo di materie plastiche? Quali danni provocano le microplastiche nei pesci? Gli oggetti di plastica si possono considerare arte? L’elenco di quesiti è lungo e stimola molteplici riflessioni, inclusa quella sull’impatto del capitalismo sull’inquinamento ambientale con realtà sociali come quelle dei «canners» («lateros» o «hui shou» in base alla loro origine), persone che nella Grande Mela sbarcano il lunario raccogliendo per pochi spiccioli rifiuti (lattine e bottiglie) e le «house boating communities» (comunità delle case galleggianti) minacciate dalla gentrificazione.
L’arte, ancora una volta, si fa portavoce di impellenti questioni socio-politiche che riguardano l’intera umanità. In particolare, l’artista Duke Riley (Boston 1972, vive e lavora a Brooklyn) nella mostra personale Death to the living, Long Live Trash, curata da Liz St. George e organizzata nelle gallerie di Arti Decorative e Design del Brooklyn Museum di New York (fino al 23 aprile 2023) nell’affrontare queste tematiche a fianco delle comunità locali crea un suo museo marittimo in cui oggetti reali sono giustapposti ad altri della finzione. I livelli di coinvolgimento dello spettatore passano dalla curiosità allo spaesamento, dal gioco alla consapevolezza. L’ironia è il leitmotiv che alleggerisce la tensione, come nelle carte da parati: quella all’ingresso della mostra presenta coloratissimi ami da pesca che formano un pattern reiterato. Si tratta, in realtà, di frammenti di plastica oceanica riciclata con moltissimi applicatori di plastica per tamponi interni.
Lo sguardo è disincantato anche sulla lunga parete della sala centrale dove Duke Riley ne propone un’altra reinterpretando motivi iconografici mitologici in un ibrido pop in cui vediamo un alligatore ingurgitare un flacone di crema solare, oppure un astice che afferra con una chela un’automobile e con l’altra un uomo-pupazzo. Attenzione alla legge del contrappasso, sembra di leggere tra le righe.
Al centro dell’ambiente, tra tipici souvenir di artigianato marittimo alle pareti, le storiche dimore americane del XVII e XVIII secolo (appartenute a Jan Martense Schenck e a Nicholas Schenck) sono occasionalmente visitabili all’interno con l’inevitabile cortocircuito creato dalle opere di Riley (realizzate con tappi di bottiglia, bottigliette mignon per liquori, siringhe e altri rifiuti) inserite tra arredi e suppellettili d’epoca. Certamente tutto parte dalla grande passione dell’artista per la cultura marittima con la frequentazione, fin da ragazzo, del Boston Marine Museum. Tre video rimandano, più direttamente, alla contemporaneità. Nei circa 9 minuti di Michele (2022) viene focalizzata l’attività di Michele Klimczak, una residente a Fishers Island che è anche coordinatrice della raccolta di detriti marini (solo negli ultimi due anni ne sono stati raccolte oltre 10 tonnellate) che quotidianamente invadono l’isola. In bellavista nelle teche sono esposte, poi, sia porcellane ottocentesche che contenitori di plastica raccolti da Riley (flip-flop, taniche di olio, flaconi per detersivo, palette per la spazzatura…) che nelle sue mani, ispirandosi alla tradizione del «scrimshaw» (disegni a inchiostro e incisioni prevalentemente su denti o ossa di balene che erano soliti fare i balenieri), si trasformano in cimeli pronti ad enfatizzare un passato non e esattamente senza pecche.
Lo «scrimshaw» del 1829 ca., attribuito al noto Frederick Myrick e proveniente dalle collezioni del Bedford Whaling Museum, ha ispirato anche il titolo della mostra Death to the living, Long Live Trash («morte ai vivi, lunga vita ai rifiuti»). Sul dente di capodoglio, insieme al profilo di un veliero, è inciso il verso «Death to the living long life to the killers/Success to the sailors wives & greasy luck to whalers» («Morte ai vivi, lunga vita agli assassini/ successo alle mogli dei marinai e buona fortuna ai balenieri): un motto che riflette la realtà oscura del presente.
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