Il 10 dicembre del 1951, a Parigi, in occasione della presentazione nella galleria di Jacques Dubourg delle quattordici xilografie che Nicolas de Staël ha realizzato per il libro d’artista Poèmes, René Char redige il testo Bois de Staël, fondamentale per comprendere il rapporto paritario e la stima accordata dal grande poeta al più giovane ed emergente pittore.

Char, non senza ironia, riflette sulla notizia di un avvistamento di impronte di due creature antropomorfe su un versante dell’Himalaya. E non importa che siano di yeti o di quadrumani di specie rara. Queste lo interessano nella misura in cui appartengono a vite che nelle loro incommensurabili solitudini hanno lasciato traccia di sé su cammini «terribilmente diseredati». E così chiosa, in fine, rivolgendosi ai visitatori: «i legni giganti che Nicolas de Staël ha inciso per le mie poesie (…) appaiono oggi per la prima volta su un campo galattico o di neve che il raggio di sole dei vostri sguardi accarezzerà o tenterà di sciogliere. Io e de Staël non siamo, ahimé, degli Yeti! Ma ci avviciniamo, talvolta più del consentito, agli esseri viventi e alle stelle».

Del resto Char riconosce nell’opera dell’artista pietroburghese (naturalizzato francese) quel certo impasto di dato sensibile e istinto sensuale alla polisemia, quella particolare fusione del concreto con l’astrazione, che è anche la forza della sua poesia. Le tavolette di legno che il pittore ha inciso per i tredici testi poetici rappresentano tasselli irregolari, fitti o diradati, variabili di grandezza e di numero, dai margini smangiati. Alternando fondi neri e tasselli bianchi a fondi bianchi e tasselli neri, de Staël inchiostra orme come tracce polverizzate dal tempo. Vi si intravedono già gli esiti pittorici di Composition fond blanc e Composition, di pochi mesi successivi, così come Les Toits del gennaio del 1952. In queste opere, spessi strati di materia cromatica, a placche, giocati principalmente su scale di grigi, prendono il sopravvento sulle ondulate, segmentate, spezzate e più astratte rappresentazioni precedenti, come le scurissime Porte sans porte (composition) del 1946 e Ressentiment del 1947, o le più terrose Eau de vie del 1948, e Jour de fête del 1949.

Queste xilografie, con una cinquantina di opere maggiori, sono presentate, fino al 10 ottobre, a Le Doyenné, Espace d’Art Moderne et Contemporain di Brioude, nel dipartimento dell’Alta Loira.

L’esposizione Nicolas de Staël Tradition et Ruptures, curata da Jean-Louis Prat (catalogo e 22,00), tocca le tappe salienti di questo artista nei dieci anni cruciali della sua folgorante carriera: dal 1945 al 1955. In inquieta ricerca di inediti giochi di forza tra astrazione e dato reale, è al Parc des Princes, dove si fronteggiano le nazionali di Francia e Svezia, che l’artista viene illuminato dai corpi dei giocatori di calcio. Ne scrive entusiasta il 10 aprile del 1952 all’amico Char, già prefigurandosi la corposa serie di opere a venire: «è assolutamente meraviglioso (…). Tra cielo e terra, sull’erba rossa o blu, una tonnellata di muscoli volteggia in pieno oblio di sé, con tutta la presenza che ciò richiede in completa inverosimiglianza. Che gioia, René! Che gioia!».

Gli studi preliminari dei Footballeurs, presenti in mostra con nove olii su carta, restituiscono l’immediato senso delle parole del pittore, che con rapidi tocchi agita quadratini e rettangoli blu e rossi, ora con impasti asciutti e saturi, ora con leggere fluidità. Il passaggio alla tela implica però una scelta decisiva: se su carta de Staël lascia le macchie di colori perlopiù ariose e nude sul fondo del supporto (belli gli effetti d’ombra degli aloni di olio sotto le vernici), su tela la saturazione cromatica è massima e la gravità della materia, resa malleabile e leggera, infonde ritmi di concitata intensità. L’artista giunge con queste opere alla sua cifra stilistica matura, anche grazie all’uso più proprio di una grande spatola per stendere gli impasti.

«È così che nel 1952 – come dirà più tardi lo storico d’arte Douglas Cooper – de Staël riviene alla figurazione, o meglio a una visione più ampia del mondo, munito di un’esperienza considerevole dei principi fondamentali della disciplina formale in pittura al pari di una grande conoscenza delle leggi del colore. Ma ciò che in quel momento lo ha salvato, e che fa di lui uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, è il suo rifiuto di accettare come unica soluzione valida una visione pittorica fondata su dei principi teorici a priori». Il passaggio allora dai corpi dei calciatori ai paesaggi, ai nudi, alle nature morte si inscrive in quella inquieta impermanenza che l’artista intraveda anche nei suoi lavori più riusciti, diffidando sempre delle soluzioni trovate per imbattersi in nuovi accidenti.

Potrebbe stupire ora, osservando i paesaggi di de Staël – ad esempio il piccolo ma abbagliante Le Soleil del 1953 –, la non adesione teorica alle impressioni di Monet, o alle stratigrafie di Cézanne. Il suo punto di riferimento è soprattutto la schiettezza di Courbet, anche lui, del resto, aduso alle increspature materiche della spatola. In una lettera a Jacques Dubourg, dopo una retrospettiva a Lione, de Staël scrive: «Che gioia Courbet, e che Titano nei confronti dei moderni. Avrei avuto voglia di abbracciare le sue opere, in ginocchio, piangendo. Fantastica visione d’amore. (…) È un uomo immenso, ci metteremo ancora dei secoli a riconoscerlo. Dico immenso perché senza estetismi, o accademismi, senza preamboli. Rampolla a getto continuo delle opere uniche con la stessa sicurezza di un fiume che corre verso il mare, denso, irradiando vaste sonorità, e restando sempre sobrio. Cézanne a confronto è un ragazzino…».

E nonostante questa ammirazione incondizionata, la lezione modernista che de Staël ci offre, soprattutto con le rutilanti cromie dei paesaggi agrigentini del 1954, è indiscutibile: essenziale, vertiginosa, brutale, sorgiva, vibrante; e magistralmente abile nel far collimare la casualità del gesto con la riflessione incessante, l’istinto astratto con la logica figurativa, le forze cosmiche con l’universo concreto.