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De Pisis, grandezza di un dio minore

De Pisis, grandezza di un dio minoreFilippo de Pisis, "L’archeologo", 1928, Genova, Galleria d’Arte Moderna

La mostra di Filippo de Pisis a Milano, Museo del Novecento La facilità (e felicità) delle sue pennellate funziona ogni volta da stupendo inganno ottico. Ma ancora ci si chiede, come trent’anni fa Giuliano Briganti, perché un maestro «totale» quale il marchesino pittore stenti a prendersi la ribalta: una «minorità» che questa mostra non disconferma...

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 3 novembre 2019

C’è un enigma che riguarda Filippo de Pisis: com’è possibile che un artista profondo, anticipatore e meraviglioso come lui resti ancora relegato nell’ambito dei maestri «minori». Se lo chiedeva Giuliano Briganti trent’anni fa. «Mi domando», scriveva il critico, «perché de Pisis non goda in campo internazionale di una considerazione pari ai suoi grandissimi meriti». Ce lo si chiede oggi dopo aver visto la mostra al Museo del Novecento di Milano, che verrà poi portata a Roma, a Palazzo Altemps, nel 2020 (a cura di Pier Giovanni Castagnoli, fino all’1 marzo; catalogo Electa).
È una mostra importante e in qualche modo attesa, per la quale è stata setacciata una sequenza di opere assolutamente «conquistatrici». De Pisis ha infatti questa peculiarità, di catturare al primo sguardo e poi di risucchiarci, stabilendo una relazione che diventa difficile rescindere: resta incollato alla retina, per il portato umano, lirico e psichico dei suoi lavori.
A Milano ce ne si rende conto appena entrati in mostra, davanti alla Natura morta con marina, opera prima del 1916 di un de Pisis ventenne. È già un’opera «totale», sognante, misteriosa ma anche carnale; in embrione si trovano tanti motivi/ossessioni che mai abbandoneranno il pittore, ma quello che più colpisce è la fulmineità della sua visione, unica, personale, da subito spavaldamente eccentrica. De Pisis a quel punto ha già intrapreso «il suo viaggio solitario alla scoperta del “demone di ogni cosa”» (Briganti). Occhieggia a qualche compagno di strada, come Giorgio De Chirico, di cui mette in scena, ruotandolo, un capolavoro della stagione ferrarese (per altro esposto alla mostra nel contiguo Palazzo Reale), davanti a due pesci «sacri».
Ma sostanzialmente, pur rapportandosi con tanti, de Pisis non si accoda mai a nessuno, per una sorta di irriducibilità a ogni «contenitore». Il suo è, come ha scritto Corrado Levi, «un esilio specifico». Il senso di esilio è evocato dalla linea dritta del mare che attraversa tante sue opere, già a partire da quella marina del 1916; una linea ineluttabile, a volte livida, lido per anime inquiete: più che mare, un Acheronte…
In quel quadro magnifico e immaginifico che è L’archeologo (1928) la spiaggia è invasa da rovine antiche, improbabili nel loro gigantismo di cartapesta, inghiottite da un verde selvatico, mentre il protagonista vaga, piccolo e titubante. Un’altra spiaggia è invece terra di conquista della Grande conchiglia (1927): e come non riconoscere un’impronta di Goya in quella forma che si leva sulla punta, quasi una giostra imperiosa, sullo sfondo di un mare di inchiostro?
Ogni volta basta togliersi le lenti che pretendono di richiudere la pittura di de Pisis dentro la formula accomodante del post-impressionismo, per vederla esplodere nelle direzioni più inattese. Come accade con La bottiglia di champagne (1928), dove il vassoio sul quale è stato allestito un rituale borghese sembra inaspettatamente trasformarsi nel palco di un atto tragico. Del resto c’era davvero stata una Bottiglia tragica, dipinta l’anno prima: una bottiglia di Medoc, che era stata usata come arma contundente in una rissa da cui de Pisis era uscito pesto.
E che dire di quei pesci, sacri o meno, creature inermi, striate di sangue, che tante volte si dispongono sul proscenio della tela, come se fosse stato destinato loro un altare? De Pisis, scrive di sentirsi attratto dal loro occhio sbarrato che «rincrudisce di dentro il senso di vuoto, di eterno, di essere, di nulla, di infinito»: e così ci fornisce una chiave di lettura che dilata la sua pittura in una direzione che, come aveva suggerito Giuseppe Raimondi, è una direzione rimbaudiana.
Poi c’è spazio – e quanto spazio! – per i trasalimenti di tenerezza, come nell’inarrivabile Gladiolo fulminato (1930), dove il fiore al vertice sembra tramutarsi in carne a causa di un’overdose di dolcezza e preannuncia i vortici rosa di De Kooning. Tenerezza, naturalmente, si spreca nei volti e nei corpi dei ragazzi desiderati e amati, che suggeriscono spesso a de Pisis una pittura più leggera, quasi estemporanea come nel Ritratto di Allegro (1940): i capelli si arricciano fino a farsi scrittura, le ombre rosa sul corpo hanno la consistenza impalpabile delle nuvole.
E ritroviamo ancora un battito meraviglioso di tenerezza in una delle ultime opere, Cielo a Villa Fiorita. Un quadro complesso e istintivo nello stesso tempo, dominato dall’accensione della macchia rossa e arancio di un fiore tra rami che sembrano di spine: si affaccia su una finestra, che in realtà è un’autocitazione, perché il paesaggio che vi si vede è un paesaggio mentale, è il ben noto sfondo, usato quasi di default, con la linea del mare che solca l’orizzonte come se tracciasse il confine del destino. Improbabile da Villa Fiorita vedere un paesaggio così…
A proposito di paesaggi, de Pisis arriva a stressarli fino a farne delle vere esperienze di allucinazione pittorica. In Quai de la Tournelle (1938), il vento agita e scompone tutte le forme, così l’immagine si fa lei stessa tempesta; le pennellate inseguono a piccoli tocchi il caos incalzante, in un vortice di segni più innamorati che impauriti. Potremmo pensare di essere sulle soglie dell’informale, ma in de Pisis la pittura è sempre felicemente gonfia di realtà e nella realtà ogni volta riapproda, pur contaminandola con sogni, con visioni, con ossessioni. Di sala in sala ci si rende conto di come la facilità (e felicità) delle sue pennellate funzioni ogni volta come uno stupendo inganno ottico che vela, quasi per pudore, profondità e anche complessità: ma poi ogni quadro di de Pisis si trasforma in un’avventura visiva che non sente affatto il peso del tempo.
Eppure de Pisis ancora deve fare i conti con quell’enigma di cui si diceva. Deve fare i conti anche in questa mostra milanese con uno sguardo che resta riduttivo: è emblematico il fatto che mentre la mostra di Giorgio De Chirico occupa in modo trionfale le sale grandi del piano nobile di Palazzo Reale, de Pisis sia invece a piano terra, costretto nella sequenza di stanze piccole e un po’ routiniers del Museo del Novecento: figlio di un dio minore. Ogni volta è come se nei suoi confronti scattasse un riflesso condizionato per cui si finisce con il collocarlo tra le fila dei petits maîtres. Non è certamente così e il tempo rema dalla sua parte, come dimostra ognuno dei quadri esposti a Milano. Forse è arrivato il momento di realizzare quel progetto che Briganti aveva immaginato per portare de Pisis alla dimensione che gli spetta. Era l’idea di una mostra a tre, «Guardi, de Pisis, Cy Twombly», con il marchesino al centro di una linea ideale, dove la lingua della pittura riesce a essere corsiva e insieme epocale.

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