La letteratura dedicata a Ernesto de Martino è divenuta persino  fluviale e quasi incontrollabile mentre la sua fama ha da tempo varcato i confini del nostro paese, grazie alle recenti edizioni in francese di alcune delle sue opere più importanti, mentre sul fronte anglofono è ormai imminente la traduzione della Fine del mondo per la Chicago University Press. La pubblicazione dei materiali e dei carteggi inediti ha alimentato una nuova e feconda stagione di ricerche e di dibattiti che hanno stabilmente collocato Ernesto de Martino tra i classici del pensiero europeo del Novecento, fino a qualche tempo ritenuto da non pochi studiosi il principale responsabile dei ritardi e del provincialismo delle scienze sociali del nostro paese a causa dell’inveterato legame con lo storicismo e con il pensiero di Benedetto Croce. Alcune generazioni di antropologi culturali si sono formate ignorando quasi la sua opera, e alcuni dei suoi lavori erano ormai fuori catalogo. Anche La terra del rimorso – datato 1961 – era caduto in un oblio dipendente dalla crisi del paradigma demologico che si era imposto nel corso degli anni Settanta, enfatizzando il suo ruolo nel «dibattito sul folklore». Per lungo tempo, la dimensione storico-religiosa delle ricerche di De Martino, e finanche il portato teorico della sua etnologia basata su una teoria del rito come protezione o riscatto della presenza umana nelle situazioni di crisi esistenziale, venne trascurata. Fu grazie al convegno internazionale di Napoli del 1995 su Ernesto de Martino nella cultura europea (Liguori, 1997, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio) che la sua opera venne liberata dal ruolo angusto di folklorista militante e divenne patrimonio acquisito il ritratto di un etnologo inquieto e originale che ha traversato la «civiltà della crisi» alla ricerca di nuovi strumenti teorici e disciplinari per risollevare la cultura europea sospesa tra l’agonia del sacro e la carenza di nuove forme di ethos civile.

I frutti più rilevanti si stanno producendo in questo ultimo lustro grazie alle nuove edizioni delle sue opere presso la Einaudi, che ora pubblica in una edizione critica a cura di Marcello Massenzio La Terra del rimorso Contributo a una storia religiosa del Sud (PBE, pp. LII – 412, € 27,00).

«La messa in causa del sistema nel quale si è nati e cresciuti» viene evocata da Massenzio, nel primo dei saggi introduttivi, Etnologia e pietas storica, come segno del debito culturale di de Martino verso il maestro dell’antropologia d’oltralpe, Claude Lévi-Strauss. La celebre formula tratta da Tristi Tropici conferisce un carattere espiativo e quasi penitenziale all’esperienza etnografica; ma in de Martino questa istanza etica e autocritica non resta mai disgiunta dall’effettivo coinvolgimento politico nelle vicende indagate. La spedizione sul campo a Galatina non avvenne, infatti,  all’insegna del mero filologismo positivista o per semplice zelo erudito. Aveva invece l’ambizione di consolidare una nuova cornice scientifica (etnografica e storico-religiosa), su cui innestare l’impegno meridionalista. Sulla scorta di Gramsci l’etnologo napoletano aveva capito come la questione religiosa (e contadina) fosse l’elemento qualificante, da un punto di vista antropologico, della più vasta e drammatica asimmetria tra il Nord e il Sud dell’Italia.

Il simbolismo magico della taranta che morde e costringe all’esorcismo coreutico-musicale le donne salentine (c’erano anche alcuni uomini colpiti dal morso del piccolo animale) viene ripercorso nel volume sia in modo sincronico, grazie a una accurata e profonda analisi del rito in azione e della sua progressiva disgregazione, sia in modo diacronico, seguendo le orme del tarantismo attraverso una vasta comparazione storico-religiosa fra culti dello stesso ambito simbolico. L’etnografia sul campo fa emergere la dissoluzione di un orizzonte mitico-rituale, che sosteneva il malessere psichico delle figure più esposte all’incombere del negativo nella propria fragile esistenza, mentre il Commentario storico offre ampie e profonde motivazioni della natura multiforme del fenomeno salentino, in ragione delle rappresentazioni, dei contrasti, delle repressioni e delle modifiche apportate al rito dallo sguardo e dalla azione delle classi dominanti e della cultura ufficiale nelle sue varie declinazioni. Inoltre, risalta in modo particolare nella osservazione sul campo la parziale efficacia del sincretismo magico-religioso offerto dalla Chiesa cattolica con l’istituzione del culto di San Paolo di Galatina, protettore delle tarantate, a fronte della repressione e della stigmatizzazione della efficacia simbolica del rito coreutico-musicale.

Cosa avrebbe detto oggi de Martino di fronte agli spettacoli televisivi della Notte della Taranta e rispetto alle manifestazioni identitarie, spettacolari e commerciali che hanno prodotto una «inversione della tradizione» privilegiando la rilettura in chiave adorcistica del tarantismo come forma di trance liberatoria da attualizzare (a volte in polemica con la lettura demartiniana)? Secondo Fabio Dei, autore del secondo testo della introduzione, Il tarantismo e il problema della cultura subalterna, l’etnologo napoletano «più che criticarle per infedeltà filologica, le avrebbe forse studiate e inserite come ultimo capitolo del suo commentario storico: documenti di una persistente vitalità del tarantismo e della sua capacità di amalgamarsi con lo spirito dei tempi».