"Willem de Kooning e l’Italia", Venezia, Gallerie dell’Accademia
"Willem de Kooning e l’Italia", Venezia, Gallerie dell’Accademia – David Levene
Alias Domenica

De Kooning: viaggi in Italia, vibra il pantone

A Venezia, Gallerie dell'Accademia, "Willem de Kooning e l’Italia", a cura di Gary Garrels e Mario Codognato Difficile credere, come da vulgata, che il soggiorno da noi del 1959 fosse ineffettuale per la sua pittura: i verdi, i blu, i gialli si accendono, e interviene il rosa, imprevisto...

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 luglio 2024

Diverse ragioni suggeriscono, nell’affollata estate veneziana, di prendersi del tempo e fare un passaggio alle Gallerie dell’Accademia per visitare la mostra dedicata a Willem de Kooning nei suoi rapporti con l’Italia, anche se questo significa differire la tappa alla Fondazione Prada, ricolma del labirintico ammasso di polvere e mercanzie allestito da Christoph Büchel, o perdere il traghetto per la Collezione Guggenheim, impegnata in un omaggio alla longeva carriera di Cocteau (dai trucchi casalinghi de Le sang d’un poète fino al pop domestico della Villa Santo Sospir).

La prima – Willem de Kooning e l’Italia, a cura di Gary Garrels e Mario Codognato, fino al 15 settembre – è, per così dire, del tutto occasionale: la fama nostrana del pittore passa infatti innanzitutto per la Biennale, con l’accoglienza offerta a opere sue sin dal 1950 e poi in diverse edizioni, documentando in maniera tempestiva i passaggi che dall’epocale Excavations ne avrebbero condotto la parabola verso la serie delle donne ghignanti e ai grandiosi esiti successivi, quasi un diario della sua giovinezza prolifica e dell’originale maturazione toccatagli in sorte con la forza di un destino ineluttabile. Risulta dunque coerente che sia la città della rassegna a costruire quest’omaggio, la cui tessitura pare composta in mordace, pertinente contrappunto al progetto di «Stranieri ovunque» voluto quest’anno da Adrano Pedrosa per l’Arsenale e il Padiglione centrale dei Giardini.

La seconda ragione ha invece a che fare – più strettamente – col discorso critico gemmato attorno a un’oeuvre chiave per la pittura moderna del secolo passato, nell’Occidente chiuso tra America ed Europa, secondo quanto suggerito da Gary Garrels nel saggio in apertura di catalogo.

I viaggi di De Kooning nello Stivale nel 1959 e poi ancora nel ’69, circoscritti in un serrato andirivieni fra Roma e la Laguna, hanno fin qui giocato un ruolo in tutto secondario nei récits e nelle letture ermeneutiche centrate sulla sua attività o interessate a ricostruirne la produzione. Caso esemplare di questa tendenza è la biografia composta in tandem nel 2004 da Mark Stevens e Annalyn Swan (poi tradotta in italiano per Johan & Levi), vera e propria summa canonica che, in pochi paragrafi di scintillante «letteratura», si limita a liquidare tali soggiorni, riducendoli a tappe eccentriche di un percorso altrimenti lineare.

Così il racconto descrive le esperienze italiane dell’artista, quasi echeggiando il destino tragico di una delle tante eroine jamesiane rovinate dallo sbarco in Continente: «anche nella fase imperiale dei tardi anni Cinquanta, i mesi che De Kooning trascorse a Roma, la più imperiale delle città, furono anomali. Non solo per via della mondanità sfrenata, degli abiti eleganti o del bere. Il fatto sorprendente era che tutt’a un tratto De Kooning non sembrava più lui. A Roma, l’arte aveva smesso di essere il centro della sua vita. (…) Le sue giornate erano diventate futili. Si sarebbe detto che recitasse una parte».

Difficile credere che l’incontro tanto vagheggiato con un paese e la sua storia – il pittore, dopo una prima rapidissima visita nell’estate del ’59 vi sarebbe tornato, in settembre, per una più lunga permanenza e poi, ancora nel ’69, avrebbe accolto l’invito a Spoleto del Festival dei Due Mondi – potesse risolversi in una lezione licenziosa, fatta solo di futili lussi e sfibranti mondanità: come se già dagli anni quaranta, il giovane olandese – sbarcato a New York da clandestino nel 1926 – non avesse riflettuto intensamente sul valore seminale attribuibile al Rinascimento ancora per l’arte del suo secolo, arrivando a costruire al riguardo una celebre «lezione» pronunciata in chiusura di decennio allo Studio 35 sull’Ottava Strada.

Willem de Kooning nel suo studio di East Hampton a New York, 1971, foto Dan Budnik

Tale background è ben esaminato in catalogo da un saggio di Ester Coen, che intreccia con sapienza le tavole di Paolo Uccello alle tele di Arshile Gorky (grande amico di De Kooning, fino al suicidio nel luglio del 1948); ma è lo stesso allestimento predisposto in museo a farsi carico di rispondere a una simile, fuorviante vulgata, apparecchiando a un tempo la terza ragione, per la quale s’impone una visita all’Accademia.

Nella seconda sala del percorso – che è poi il cuore dell’esposizione, aperta da un introibo divertito e giocoso, ma disposta tutt’attorno a questo grande ambiente – i curatori hanno infatti scelto di ordinare il «prima» e il «dopo» della permanenza romana di fine anni cinquanta (conclusasi con le festività natalizie), lasciando che le opere antecedenti al viaggio dialoghino con quelle da esso ispirate, appese alle pareti opposte di un ampio cubo bianco ma in prestito da musei diversi, fra cui la Bayerische Pinakothek der Moderne di Monaco e il Guggenheim di Bilbao.

La scelta è vincente, soprattutto perché offre un’occasione che neppure l’elegantissima veste editoriale del catalogo – prodotto da Marsilio con occhio attento alle ciano – sembra in grado di riprodurre, di pagina in pagina. Soltanto il visitatore, infatti, può cogliere davvero, di fronte a tele come Detour o Brown Derby Road, entrambe del ’58, la differenza intercorrente coi «paesaggi pastorali astratti» del 1960, da A Tree in Naples a Villa Borghese (la felice definizione è di Thomas B. Hess). Se simile è l’ampiezza della pennellata, la baldanza sicura del gesto, volta a catturare la tensione emotiva di un’impressione trascorrente, sono piuttosto le tinte a cambiare di tono, a farsi intense e luminose, a vibrare in frequenze sonore, aperte a temperature più energiche, secondo un pantone improvvisamente rivisto: così il verde passa dal marcio al colore squillante dell’erba, il blu si rischiara, tinto di cielo, il giallo abbandona le cupezze di tuorlo d’uovo per brillare d’un riflesso asprigno, preso alle scorze di limoni acerbi, il rosa interviene, improvviso e imprevisto.

Basta lo slittamento da un’iride all’altra per riconoscere quanto l’Italia poté contare per De Kooning e la sua pittura (mentre fa allora tanto più senso che quest’esperienza strabiliante venisse decantata, nel lavoro in situ condotto nello studio preso in prestito da Afro, attraverso una serie di «prove» in bianco e nero, presenti anch’essi a Venezia con le loro dediche affettuose); tuttavia, di fronte a simili creazioni, non si può non riandare con la memoria a una delle confidenze concesse dal pittore al regista Robert Snyder proprio nel ’60 e in parte incorporate nel documentario Sketchbook No. 1: Three Americans, da questi montato per celebrarne la grandezza assieme alla gloria di Richard Buckminster Fuller e Igor Stravinskij.

Alla fine della conversazione, fuori dal suo atelier, De Kooning s’era infatti lasciato scappare: «Poi giunge un momento nella vita in cui si esce a fare una passeggiata, semplicemente. E si cammina nel proprio paesaggio». E pare di risentirlo a Roma, quando con gli amici, a una svolta, di fronte a uno scorcio suggestivo non poteva che esclamare «Guarda là!» (con Basaldella che in risposta, un giorno, lo avrebbe esortato pronunciando un ironico «Guardalo tu», senza forse sapere quanto il consiglio avrebbe in fondo contato…).

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