De Angelis: il tragico l’ho incontrato davvero con Lucrezio
Da un saggio di Luciano Perelli letto al liceo nacque la passione di Milo De Angelis per il "De rerum natura", di cui un anno fa ha pubblicato una traduzione in versi liberi. Il poeta milanese rievoca qui il suo ininterrotto corpo a corpo con l’Antico: Filottete, Antologia Palatina, Claudiano...
Da un saggio di Luciano Perelli letto al liceo nacque la passione di Milo De Angelis per il "De rerum natura", di cui un anno fa ha pubblicato una traduzione in versi liberi. Il poeta milanese rievoca qui il suo ininterrotto corpo a corpo con l’Antico: Filottete, Antologia Palatina, Claudiano...
Scoscesa, terebrante e scandita in apnea, come voleva Bonnefoy, nella réthorique profonde di un sentire/pensare che concomita con la sua fisica pronuncia, la voce di Milo De Angelis non è soltanto quella inconfondibile di una generazione ma, del nostro tempo, è una fra le più alte in assoluto. Firmatario di una decina di raccolte, da Somiglianze (1976) che folgorò un paesaggio combusto e inaridito dalla neoavanguardia fino a Linea intera, linea spezzata (2021), che testimonia al culmine della propria vicenda un arduo percorso di ricomposizione biografica, il poeta milanese ha sempre mantenuto attivo il rapporto con la tradizione e (quasi un hapax, rispetto al caso dei coetanei) specialmente con gli autori classici, di cui vanno almeno rammentate le versioni dall’Antologia Palatina (L’amore, il vino, la morte, ES 2015) e da un raffinato mitografo della décadence latina, il Claudiano de Il rapimento di Proserpina (Marcos y Marcos 1984, Enrico Casaccia 2010).
Ma nei decenni, già scoperto sui banchi del liceo e poi serbato come libro del proprio meditare, è Lucrezio per lui a profilarsi quale banco di prova e cimento essenziale, il poeta-filosofo per eccellenza, maledetto per il suo materialismo e reso clandestino nei secoli dalla sua stessa unicità, colui – scrive De Angelis – che sa vivere contemporaneamente e all’estremo «il senso del nulla e il senso dell’infinito». Pubblicata l’anno scorso nello «Specchio» di Mondadori, memorabile, la integrale traduzione in versi liberi, De rerum natura di Lucrezio (ne diede puntuale recensione Massimo Natale in «Alias D» del 24/7/2022), è stata al centro di un doppio appuntamento al recente Festival anconitano «La punta della lingua»: con la mitezza e l’intensità che gli sono proprie, il poeta ha letto brani della sua versione nelle serate del 27 e 28 giugno, a cura di Viviana Nicodemo, nel monastero di Santa Zita a Offagna e, presentato da Alessandro Moscè, nel Museo della Carta di Fabriano. In margine al Festival, Milo De Angelis ha accettato di rispondere ad alcune domande.
Come mai Lucrezio e come mai una versione integrale del «De rerum natura»?
Lucrezio mi accompagna da una vita intera, fin dalle prime letture liceali al «Berchet» di Milano, e nel corso degli anni ho tradotto brani e frammenti del poema, facendone delle piccole antologie. Ma le antologie e i passi scelti sono ancora tipici dell’amore adolescente. Nell’anno in cui ho dato la maturità, nel 1970, ho scoperto il libro straordinario di Luciano Perelli, Lucrezio poeta dell’angoscia, che ne dava una lettura fortemente esistenziale, antistoricista e quindi in contrapposizione alla lettura in quegli anni dominante, per esempio di Luca Canali. Di Perelli mi affascinava il pathos, la tensione stilistica, capace di ardenti e passionali riflessioni. L’amore maturo per Lucrezio, quello attuale, esige una visione d’insieme, esige le nozze, nella buona e nella cattiva sorte, affrontando anche i momenti più descrittivi, eruditi e scientifici, in apparenza aridi ma a ben vedere attraversati anch’essi dallo sguardo visionario di Lucrezio, che trova sempre un varco nella catena dimostrativa e ci mostra lo splendore della luna solitaria o le nuvole in cui appaiono i volti dei Giganti.
C’è un precedente cospicuo, il tuo Claudiano («De raptu Proserpinae»), che però era voltato in blocchi di prosa ritmica. Dunque perché allora la prosa e oggi, con Lucrezio, la poesia in versi?
Quando ho tradotto il De raptu Proserpinae di Claudiano, alla fine degli anni settanta, non ero ancora pronto per una traduzione in versi. Non conoscevo abbastanza l’esametro latino e la sua mobile andatura di lunghe e di brevi, e così ho scelto la prosa. Con il trascorrere del tempo, inoltrandomi più a fondo in questo metro, spero di avere trovato una giusta corrispondenza con il verso lungo della mia traduzione, che ho tentato di rendere più o meno lineare a seconda delle scene e delle cesure lucreziane. Ho impiegato molto tempo per capire l’esametro, sono entrato nei meccanismi complessi di questo verso che può arrivare dalle dodici alle diciotto sillabe, a seconda del gioco delle lunghe e delle brevi: ma non mi erano sufficienti né l’endecasillabo né l’alessandrino, così ho scelto un verso italiano molto lungo, che arriva fino alle venti sillabe e in certi momenti può restringersi e diventare più verticale rispecchiando le doppie cesure che Lucrezio usa nei passaggi di maggiore tensione.
Tu le citi tutte nella introduzione, ma quale tra le versioni italiane precedenti hai sentita più affine?
Ho trovato meno vecchia, meno polverosa proprio quella in prosa di Armando Fellin, per il lessico, per la sua capacità di entrare nel palpito vivo, frutto del lavoro di uno studioso morto giovanissimo nel 1966. Altrove c’è purtroppo tutto un pantano stantìo a base di «beltà», di «alcova», di termini oggi quasi ridicoli…
Quanto hanno contato i classici della antichità nella tua formazione?
Hanno contato moltissimo i tragici greci, compreso Euripide, che in un primo tempo avevo sottovalutato, forse per l’influenza di Nietzsche, il quale notoriamente lo considerava un decadente, ma i greci in generale sono stati sempre una grande passione, già amati nella versione di Ezio Savino. Da giovane avevo tradotto il Filottete, poi scomparso insieme a un de Vigny e a un de Nerval nell’incendio di casa mia in via Rosales, nel ’98. Ma il tragico l’ho davvero incontrato con Lucrezio, nell’episodio di Ifigenia, dike contro dike, due giustizie entrambe nobili che però si scontrano. E accanto ai tragici, ho amato il loro opposto, ossia l’Antologia Palatina, con le dolcezze del distico elegiaco, che ho tradotto vent’anni fa. Non bisogna stupirsi, perché non ci può essere un tragico interamente cupo. Il tragico, per esistere, ha bisogno di luce e di chiaroscuri, sullo sfondo della sua terribile ferita.
Meno ufficializzato, diciamo, è il tuo rapporto con i classici della modernità. C’è un motivo?
Dici bene. Allora colgo l’occasione per accennare al mio rapporto con ‘i classici della modernità’ e proporre qui una piccola antologia personale dei poeti novecenteschi che sono stati davvero importanti per la mia formazione: dei tedeschi, Gottfried Benn per i suoi affondi personali nei territori del nulla; dei francesi, Yves Bonnefoy per l’atmosfera simbolista che avvolge le sue figure; degli angloamericani, Sylvia Plath per i fulminei trapassi da una sponda all’altra del pensiero; degli spagnoli, Vicente Aleixandre per le immagini deliranti del corpo visionario; dei russi, Marina Cvetaeva per la dimensione mitica e fiabesca del suo universo poetico; degli italiani, infine, Eugenio Montale per il rigore del suo paesaggio filosofico. Ma sono stati importanti anche poeti polacchi come Herbert e Miłosz, greci come Seferis e Ritsos… a tutti costoro debbo molto.
Quanto avverti la consonanza o l’apporto dei classici, antichi e moderni, alla tua parola di poeta?
Sono consonanze profonde e in quanto tali scorrono nelle profondità dell’ispirazione, sono un grande fiume carsico che alimenta la scrittura attuale con l’acqua più antica. Non bisogna cercare analogie di temi o paesaggi, perché ovviamente la natura lucreziana del primo secolo a. C. non è la metropoli novecentesca dei grattacieli e dei passanti: ma il senso dell’infinito e il senso del nulla sono ancora gli stessi e continuano a fecondare gli atomi della nostra ispirazione.
Naturalmente ti sei interrogato sul tradurre: che cosa senti di avere appreso da questa pratica antichissima e anzi fondativa della nostra stessa civiltà?
Forse tradurre punta proprio a questo: far sentire l’eco attuale della voce antica, ascoltare il suo desiderio di permanenza, dislocarsi nel cuore della propria lingua per ospitare la lingua precedente. E forse significa contrastare la finitezza di un’opera, farle oltrepassare le contingenze linguistiche della sua epoca e aggiungere una tappa al suo viaggio storico e spirituale. Significa dunque innestarla nella nostra lingua, diventare il guardiano della soglia, come scrive Antonio Prete, vigilare che sia fruttuoso il passaggio da un’epoca all’altra, evitare ogni trasposizione automatica e trovare una nuova sintassi per le singole parti del discorso, cercando però di mantenere ferma l’essenza della parola originaria, la sua musica, il suo profumo, la sua particolare punteggiatura, le intonazioni della sua voce, la vibrazione mutevole dei suoi significati: tradurre, trans-ducere, ossia condurre la parola antica tra due lingue, immergerla nell’attualità della nostra, risvegliarla, permetterle di rifiorire.
Ci sono altre traduzioni a cui lavori? E, più in generale, a cosa stai lavorando?
Sto raccogliendo le mie poesie giovanili, quelle scritte dal 1967 in poi, che verranno pubblicate l’anno prossimo nello «Specchio». Ma soprattutto sto traducendo Les fleurs du mal di Charles Baudelaire – anche questo libro uscirà l’anno prossimo – nel tentativo di mantenere in vita il delicato equilibrio tra le sue antinomie, che sono sanguinose. Baudelaire, con Rimbaud e Cesare Pavese, è uno dei poeti con cui ho avuto per anni un rapporto di nascosto dalla mia famiglia, un rapporto notturno, un colloquio quasi sulla scia della banda infantile, un patto intimo e clandestino da non divulgare. E poi negli anni ottanta avevo già tradotto I paradisi artificiali per Guanda. Di Baudelaire, se posso dirlo, mi è estranea una certa patina mondana, l’aria da dandy parigino ma d’altra parte in Baudelaire inferno e paradiso sono regni confinanti e lui stesso è l’incarnazione storica del Doppio, questo archetipo che attraversa tutta la modernità: nobiltà e bassezza unite in un solo respiro, alessandrini perfetti e temi sconvolgenti, forme cesellate che rinchiudono orrori, oscillazioni spaventose dentro un uomo innamorato dell’antica Grecia, che cerca in quei luoghi la bellezza eterna e trova la carogna di un impiccato. Il mio Baudelaire è appunto quello della Passante, quello dell’incontro illuminante, quello di una vita che può cambiare da un momento all’altro oppure, ho appena detto, l’innamorato della Grecia che scopre a Citera un corpo in putrefazione. Nella sua poesia ciò che è sublime e ciò che è corrotto diventano una cosa sola.
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