Ddr, il punto di svolta di una sedicenne
Intervista Parla la scrittrice Charlotte Gneuss, al Salone domani con il suo esordio «I confidenti» per Iperborea. «Ho scelto il 1976 per varie ragioni. I miei genitori raccontavano storie sulla loro giovinezza e, inoltre, quel decennio tende a essere oscurato nella memoria collettiva dei tedeschi»
Intervista Parla la scrittrice Charlotte Gneuss, al Salone domani con il suo esordio «I confidenti» per Iperborea. «Ho scelto il 1976 per varie ragioni. I miei genitori raccontavano storie sulla loro giovinezza e, inoltre, quel decennio tende a essere oscurato nella memoria collettiva dei tedeschi»
Che cosa rimane nella Germania libera e iperconnessa di oggi della vecchia Ddr? Molto, se una 32enne nata e cresciuta a Ludwigsburg, nel Baden-Württemberg, riesce in poco meno di trecento pagine a restituire plasticamente un mondo nel quale non ha mai vissuto e a collocarvisi idealmente all’interno come un’adolescente pronta ad animare gli anni Settanta con l’universalità dei suoi desideri, la contraddittorietà dei sentimenti e la confusione delle sue credenze. Spietata educazione sentimentale e politico-sociale di una sedicenne nei sobborghi Dresda, I confidenti (titolo originale Gittersee – dal nome del luogo deputato – tr. it. di Silvia Arbesano, Iperborea, pp. 224, euro 17) di Charlotte Gneuss sarà presentato domani al Salone del Libro di Torino, in un’edizione che vede ospite proprio la lingua tedesca.
Una giovane scrittrice e un debutto letterario folgorante, con non poche polemiche in patria: lo scrittore Ingo Schulze (in Italia pubblicato da Feltrinelli, «ndr»), che proprio a Dresda è nato e cresciuto prima della caduta del Muro, ha stilato una «Mängelliste», un elenco di imprecisioni nel suo romanzo, da addebitare al fatto che, giovane e «dell’Ovest», lei non può conoscere e dunque scrivere della Ddr. Si è gridato all’«appropriazione culturale»…
Riconosco la connessione esistenziale che vi è tra esercizio etico ed esercizio estetico: è giusto domandarsi chi sia a raccontare la storia di chi, per quale motivo e come. Questo soprattutto nella Germania post-coloniale e post-fascista. Ma nella Germania dell’Est c’è una storia di soppressione della narrativa. I miei genitori provengono proprio dalla Ddr e la storia che narro nel mio romanzo non è mai stata raccontata, né avrebbe potuto esserlo nel passato. Sarebbe stata vietata tanto nella Ddr quanto nella Repubblica Federale: non si sapeva che ci fossero dei minori che collaboravano non ufficialmente con la Stasi. Se devo essere sincera, però, sono stata molto sorpresa dal dibattito, perché sorto in occasione del Deutscher Buchpreis (a cui il romanzo era candidato, ndr). Dal momento che si è voluto impedire che il mio libro finisse nella short list, ma se ciò si fosse venuto a sapere avrebbe potuto scatenare una polemica sul sessismo e sulle relazioni di potere nel mondo letterario, si è scelto invece di disputare la questione se io – una giovane dell’Ovest – avessi il diritto di scrivere questo libro.
In fondo, il suo è anche un «Bildungsroman»: perché ha scelto di ambientarlo negli anni ’70 nella Ddr? Quali elementi aggiuntivi e peculiari poteva fornire il contesto della Ddr a un’educazione sentimentale?
Ho scelto il 1976 per varie ragioni. Da un lato, i miei genitori sono nati all’inizio degli anni Sessanta e quindi ho sentito molte storie sulla loro giovinezza. Dall’altro, gli anni Settanta tendono a essere oscurati nella memoria collettiva dei tedeschi – in contrasto con il tumultuoso decennio precedente della Germania Ovest, o con la fine degli anni Ottanta e la caduta del Muro. Ma l’anno 1976 è particolarmente affascinante: è stato l’anno in cui un prete di nome Oscar Brüsewitz si è dato fuoco per protesta politica suscitando ampia indignazione tra i cittadini della Ddr e una rinascita della popolarità della chiesa. Alla fine, la protesta della chiesa ha contribuito significativamente alla caduta del Muro. Inoltre, un cantautore molto noto nella Ddr, Wolf Biermann, è stato bandito dal rientro in patria dopo aver tenuto un concerto in Occidente. Quell’incidente è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso per molti che avevano sperato nella possibilità di arrivare al socialismo per via democratica. Per loro, l’espatrio di Wolf Biermann è stato un chiaro segno che lo Stato non era disposto a cambiare, e ha scatenato la formazione di un movimento di opposizione. Intellettuali e artisti come Nina Hagen, Jurek Becker, Manfred Krug, Katharina Thalbach e Thomas Brasch hanno lasciato il paese. Gli storici oggi vedono l’anno 1976 come un punto di svolta nella storia della Ddr, come il vero inizio della sua fine. Questo è, tra le altre cose, il motivo per cui il soprannome della mia protagonista è «Virgola»: il segno di interpunzione nella frase che si interpone tra due affermazioni. Un punto di svolta.
Il divario storico/culturale tra le due ex Germanie è ancora molto evidente oggi? E come viene percepito nelle generazioni più giovani?
In realtà, l’Est incombe su ogni mappa sociografica. Che sia per via dei salari, le scelte di voto o le opinioni in politica estera, come il legame con la Russia. Le ragioni sono varie. Le persone in Germania non solo hanno avuto esperienze diverse nei due paesi fino al 1989, ma anche negli ultimi trentacinque anni. Mentre nell’Est ci si doveva far strada nel mondo capitalista e spesso ci si sentiva abbandonati a se stessi, la vita per le persone nella Germania occidentale dopo cosiddetta riunificazione è rimasta in gran parte invariata. Questa divergenza si estende alle generazioni più giovani. Credo che il processo di unificazione continuerà ancora a lungo.
«A Berlino, tutti vogliono andare sulla luna»: è una frase emblematica del romanzo. Sembra un desiderio colpevole…
Nel contesto dell’ideologia socialista è riprovevole che qualcuno voglia fare ciò che vuole, perché magari la cosa potrebbe mettere in pericolo i bisogni della comunità o semplicemente non corrispondere a essi. Nel capitalismo, d’altra parte, l’autorealizzazione è fondamentale. Suggerisce che puoi diventare qualunque cosa, devi solo provarci davvero. Questa idea però non tiene conto dei contesti dai quali le persone non possono semplicemente fuggire. Da qui l’astio ironico della frase pronunciata da chi a Berlino ovest non ci poteva andare.
Il romanzo riflette una bella dialettica: le posizioni politiche e le convinzioni, da un punto di vista psicologico, si disgregano gradualmente a mano a mano che passano gli anni e ci avviciniamo alla caduta del Muro.
È un modo possibile di leggere la storia. Mentre la generazione dei nonni della mia protagonista era colpevole durante il secondo conflitto mondiale, i suoi genitori erano «bambini di guerra». Bambini cresciuti tra le rovine, che adesso stanno costruendo un nuovo paese. La generazione della mia protagonista non ha vissuto la guerra; non può capire la paura che si cela dietro alla paranoia stalinista della Ddr. Non ha nemmeno sperimentato l’euforia della fondazione dello Stato. Quello che sperimenta è solo il fatto che non può viaggiare dove vuole e che ci sono certe cose di cui non si dovrebbe parlare. Tutto ciò che è eccitante sembra provenire dall’Ovest. E la mia protagonista si chiama appunto «Virgola», si muove in un anno di svolta.
Qual è stata la maggiore difficoltà nella scrittura di questo romanzo?
Ho passato molto tempo a pensare all’agente di supporto della mia protagonista. La sicurezza dello Stato è spesso descritta come gestita da persone rozze e malvagie, ma il male non mi interessa. Credo che anche da qualcosa di buono possano scaturire elementi cattivi. L’idea di uno Stato equo in cui l’economia esista per il popolo e non il popolo per l’economia è un’idea buona. Per questo ho raffigurato l’agente della Stasi come un idealista che crede veramente in uno stato socialista giusto. E però trascura la violenza che infligge a coloro che lo circondano. Osservo questo fenomeno anche ai giorni nostri. Le persone si focalizzano talmente su un ideale da trascurare i loro simili.
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