Nel 1949, a trentanove anni, poco prima di togliersi la vita assieme a un’altra donna, Dazai Osamu prendeva commiato dalla moglie e dal mondo con queste parole, rese pubbliche solo cinquant’anni più tardi: «Non mi uccido perché ti detesto. Lo faccio perché mi è venuto in odio scrivere romanzi».
Enfant terrible della letteratura giapponese moderna, con un passato di dipendenza dagli oppioidi e diversi tentativi di suicidio (spesso in coppia, con la sventurata amante di turno), Dazai fu uno di quegli autori che seppero cogliere e trasferire nella scrittura il disorientamento della propria generazione nei primi anni del dopoguerra, quando il Giappone si ritrovava profondamente cambiato dalla sconfitta.

Assieme a lui, Sakaguchi Ango e Oda Sakunosuke, tra i più noti esponenti di quella che venne chiamata spregiativamente «Scuola decadente» (o, più letteralmente, il «Gruppo degli inaffidabili»), incarnarono questo disagio esistenziale producendosi, tra l’altro, in comportamenti autodistruttivi. Oggi, solo Dazai gode ancora di un pubblico ampio, forse perché la sua figura suscita quel diffuso sentimento di simpatia per l’eroe sconfitto discusso da Ivan Morris nel suo famoso saggio La nobiltà della sconfitta.

Pubblicato meno di un anno prima della morte di Dazai, Lo squalificato (titolo che si potrebbe anche tradurre «inadatto come essere umano») resiste in Giappone tra i bestseller, sfidando gatti, caffè e buoni sentimenti. Ugualmente famoso e tuttora apprezzato è Il sole si spegne, romanzo del 1947, tradotto dall’inglese nel 1959 da Luciano Bianciardi e ora ripubblicato da Mondadori in una nuova traduzione dall’originale (a cura di Antonietta Pastore (pp. 144, euro 12,50). Il titolo originale, Shayo, evoca l’immagine del sole che tramonta a ovest, e, in senso figurato, il declino della società giapponese e in particolare dell’aristocrazia, prima della guerra.

La voce narrante è affidata a Kazuko, primogenita di una nobile famiglia ormai decaduta, che vive assieme alla madre in una remota villetta nella penisola di Izu, dopo aver dovuto alienare la dimora avita e lasciare Tokyo. La provvisoria felicità della donna, emotivamente dipendente dalla madre, è interrotta dal ritorno del fratello minore Naoji, aspirante scrittore cinico e oppiomane, dato per disperso in un’isola del Pacifico meridionale durante la guerra. Il suo arrivo innesca un gioco al massacro che culmina con la scomparsa dell’unica persona «veramente nobile»: la madre.
Con la sua morte, Naoji e Kazuko, non più moglie, non più madre, e nemmeno più figlia, perdono il legame con quel mondo aristocratico ormai in declino e lottano per sopravvivere in un «periodo di morale transitoria», «vittime insignificanti» di un Giappone in rapido cambiamento. Come lascia intuire la sovrapposizione del personaggio di Naoji con Dazai, l’epilogo è tragico; ma allo stesso tempo resta aperto, come una porta spalancata su un paesaggio brumoso.