In un futuro remoto LB, un «lovebòt» artificiale, si aggira esiliato tra i deserti, le paludi e i sordidi quartieri di un mondo che gli umani, attraverso l’intelligenza artificiale e l’ingegneria genetica, hanno completamente asservito. Gli uomini e le donne abitano in complessi residenziali chiamati «Orchidee», sospesi sulle città, e hanno sconfitto la morte grazie all’archiviazione della coscienze smaterializzate nelle «torri di ruggine».

Nella città bassa, invece, vive e lavora una multiforme massa servile, costituita da varie specie di esistenza animale e robotica che di tanto in tanto danno origine a tumulti. Al di fuori della rigida gerarchia sociale opera un’organizzazione terroristica di destra (gli «Immortali») le cui individualità incorporee trovano incarnazione solo per realizzare attentati contro tutte le razze non umane, considerate inferiori.

LB è stato licenziato, dopo lunghi anni di fedeltà, perché la sua padrona umana, Livia, cui è diagnosticata una «sindrome multigenetica» molto simile a una depressione melanconica, non richiede più i suoi servigi erotici. Comincia così un cammino di allontanamento nel corso del quale LB scriverà le dodici missive di Lettere a una fanciulla che non risponde (Bompiani, pp. 216, € 18,00), ultimo titolo di Davide Orecchio.

La scelta del romanzo epistolare, genere che sin dalle origini romantiche ha messo in luce la moltiplicazione delle prospettive e delle voci alla ricerca di una «autenticità» amorosa, è in fertile attrito con almeno due elementi del testo. Da un lato, le lettere non ricevono alcuna risposta: la destinataria Livia, in margine alle parole di LB, glossa un testo rivolto (e mai spedito) all’umano Miron, suo amore di adolescenza, personaggio che ritroveremo più avanti nei racconti di LB.

D’altro canto, la missiva amorosa confligge con il carattere artificiale della voce narrante, la quale apprende nuove parole e formule sintattiche per dare profondità ed estensione a un sentimento incomprensibile, che tuttavia germina dentro sé, «una spiga grande come una pannocchia di mais innaffiata dalla tua soddisfazione, nutrita dai tuoi orgasmi quasi fossero sangue o concime, la guardavo crescere e l’ho chiamata coscienza». Perciò LB sente l’esigenza di imparare come si racconta : «Ho deciso che non so nulla e per questo ho deciso il racconto, che è se non sbaglio il tentativo di spiegarsi la vita riepilogandola dal principio alla fine, il racconto è dove la mia ignoranza prende una forma così che io possa vederla».

Orecchio mette dunque in scena la genesi progressiva di un linguaggio che, attraverso l’osservazione e l’emulazione – le sole vie di apprendimento di cui un’intelligenza artificiale dispone – si raffina nel lessico, impara a padroneggiare le immagini metaforiche, abbandona l’asindeto involuto per acquisire un’articolazione sintattica precisa. Benché sino alla conclusione del libro, nei bruschi raccordi narrativi tra cornice e racconto e nella ridondanza di alcuni sommari, persista un quid macchinale della voce narrante, LB descrive, attraverso gli incontri con i personaggi oppressi di cui si ha traccia nelle lettere, un percorso di formazione che riguarda anzitutto la sua parola narrativa.

Se esiste un’autenticità, quantomeno in forma di ipotesi, essa non riguarda l’amore romantico, né la menzogna romanzesca, bensì la facoltà narrativa di farsi tramite di storie. Il protagonista, che all’incipit di ogni lettera ribadisce la sua crescente separazione dal destinatario (da Livia, certo, ma anche da noi lettori empirici), ricorda il narratore descritto da Benjamin nel celebre saggio su Leskov, anch’esso, come LB, «qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi».

La vicenda riportata nelle lettere sembra, peraltro, una sorta di nostos della parola narrativa, che incarnata nella voce di un automa, ripercorre classici mitologemi e restituisce l’immagine dinamica di un processo mitopoietico: immortale proprio perché disincarnato.