Nel «Seminario su La lettera rubata» Jacques Lacan afferma, a proposito del celebre racconto di Poe, che «Non può essere nascosto che ciò che appartiene all’ordine della verità. È la verità che è nascosta, e non la lettera. Per i poliziotti non è importante, per loro c’è solo realtà, ed è per questa ragione che non la trovano».

Dupin, invece – che nel racconto, dietro lauta ricompensa, consegna il maltolto al prefetto della polizia –, è in grado di giungere alla verità grazie a un’intelligenza che mescola le deduzioni analitiche con l’analogia poetica e il ragionamento abduttivo.

Una contrapposizione analoga emerge nell’ultimo libro di Davide Longo, Requiem di provincia (Einaudi, pp. 496, € 20,00), che aggiunge un episodio al ciclo di romanzi noir, avviato nel 2014 con Il caso Bramard (Feltrinelli, poi Einaudi nel 2021), della coppia investigativa Vincenzo Arcadipane – Corso Bramard.

Di quel filo narrativo quest’ultimo volume non è un prosieguo bensì un «prequel» che narra la prima maturità dei protagonisti e la genesi delle loro principali ossessioni. È il marzo del 1987, e una domenica sera qualcuno spara in faccia a Eric Delarue, dirigente dello stabilimento siderurgico Uttsid di Casalforte, a una ventina di chilometri da Torino.

Il commissario di polizia Bramard e la sua squadra si mettono sulle tracce di chi ha esploso il colpo e, insoddisfatti delle soluzioni pacificanti (e fallaci) caldeggiate dai superiori per arrivare a una conclusione della delicata vicenda, spingono la ricostruzione dei fatti sino all’approssimazione a una verità finale, la cui reale sanzione giudiziaria resterà – con eloquente irresolutezza – esclusa dalle pagine del libro, e dunque sconosciuta al lettore.

La scrittura di Longo attinge a piene mani all’allegoria e alle ambiguità della significazione, a partire dalla costruzione dei personaggi, quasi tutti alle prese con fatti di cui ben riconoscono il dolore (che si esplicita spesso attraverso un sintomo: il consumo compulsivo di sigarette o di caramelle sucai) ma ne rifiutano la realtà, trattenuta nella rimozione, attraverso un percorso (per molti versi contrario all’arco narrativo del romanzo) di cui si conosce l’esito finale ma non i processi che lo generano.
Il perenne stato melanconico del commissario Bramard, è esemplare: frutto di un trauma orribile sul quale incombe un senso di colpa che gli impedisce la consumazione del lutto (l’assassinio, due anni prima, di moglie e figlia da parte di Autunnale – suo nemico-nemesi, affrontato nel Caso Bramard), risponde attraverso un costante abuso di alcol e continue allucinazioni in cui compare la famiglia defunta.

Al termine delle sue scorribande notturne, però, a recuperarlo c’è sempre Arcadipane, dall’indole sanguigna quasi contraria al piglio saturnino e umorale del commissario. Una simile contrapposizione di caratteri dà vita a un conflitto di registri tragicomico, che si manifesta nel continuo scambio di focalizzazione tra i due e che restituisce uno sguardo strabico sulla torbida realtà quotidiana della provincia piemontese. Per molte pagine la prospettiva resta divisa: spesso Arcadipane rimane interdetto dal silenzio tragico e inaccessibile di Bramard. La polifonia di voci trova poi una sintesi solo quando il commissario, a causa di alcune scorrettezze procedurali, è allontanato dal caso e prende congedo dalla polizia. Allora Arcadipane è prima dimezzato dall’estrusione (nell’ufficio del questore «il sole ha girato l’edificio e la luce entra di taglio, tracciando sul pavimento metà della sua sagoma»), e poi, gradualmente, riesce ad introiettare la voce di Bramard e ad assumere lo sguardo di un investigatore maturo.

L’organizzazione di una simile voce narrante, con la sua doppia prospettiva, consente all’autore di raccontare una vicenda immersa in atmosfere quasi hard boiled – se solo ci fosse più sangue, cinismo e meno ironia verso il linguaggio poliziesco –, e al contempo di alludere ad altro. L’incertezza dei personaggi è leggibile infatti anche come allegoria di un’epoca di mezzo, che naviga a vele spiegate dalle tensioni collettive degli anni Settanta verso l’euforia privata di fine millennio, e che, con i suoi rivolgimenti assiologici, rende instabili e quasi intercambiabili i ruoli di vittima e carnefice.