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David Toop, affresco ambient

David Toop, affresco ambientDavid Toop – René Pichet /INA via Getty Images

Pagine /È uscita una nuova edizione del libro «Oceano di suono», ne parliamo con l’autore Un percorso coinvolgente e poco ortodosso attraverso le maglie della musica e della cultura moderna. «È diventato un genere consolidato, forse privo delle aperture che in origine mi hanno ispirato»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023

A distanza di quasi trent’anni dalla prima pubblicazione, immergersi nella lettura di Oceano di suono significa abbandonarsi a un’esperienza totalizzante, quasi fossimo dispersi in mare aperto e ormai privi dei principali punti cardinali. A rafforzare questo senso di iniziale straniamento ci pensano le prime pagine del volume scritto da David Toop, uno stream of consciousness in cui suoni, immagini, memorie e suggestioni si susseguono senza soluzione di continuità, passando dallo stato di veglia a quello ipnagogico. Una volta partiti, però, questa raccolta di «opinioni, pensieri, esperienze» (come la definisce lo stesso autore) supera di gran lunga l’oggetto centrale della ricerca – la quasi ineffabile «musica ambient» – per diventare un percorso molto coinvolgente e poco ortodosso attraverso le maglie della musica e della cultura moderna. Il primo merito di Toop, infatti, è quello di aver integrato perfettamente i temi del libro con l’approccio avventuroso, perfino ondivago, della narrazione, capace di spaziare dalla letteratura alla storia, dall’antropologia alla musicologia, senza mai perdere il punto di vista dell’ascoltatore più curioso.

Certamente la formazione dell’autore inglese ha contribuito enormemente a questo registro narrativo, dato che Toop non è solo uno scrittore e giornalista, ma innanzitutto un compositore di musica colta, membro dei Flying Lizards più avanguardisti, al lavoro con personaggi del calibro di John Zorn, Scanner, Ryuichi Sakamoto e pubblicato da etichette fondamentali per la ricerca sonora come Sub Rosa, Atavistic e Room40.

La nuova edizione di «Oceano di suono», il libro di David Toop

ABBATTERE LE BARRIERE

Oceano di suono, dunque, non prova a etichettare suoni/artisti/culture bensì ad abbattere le barriere di genere, conducendo il lettore attraverso un intrico di esperienze e incontri assolutamente memorabili. Ne vien fuori un affresco originale e illuminante della fine del millennio scorso, irrobustito da una miriade di connessioni crossmediali capaci di collegare punti estremi dei quattro angoli del globo. «Non credo di aver cercato consapevolmente di abbattere delle barriere, anche perché non ho mai ascoltato utilizzando delle barriere – ci spiega David Toop in occasione della nuova edizione italiana del libro, brillantemente pubblicata da add editore -. Volevo invece creare connessioni tra la musica e le esperienze di ascolto, senza rimanere intrappolato nelle categorie. Esistono connessioni storiche intricate e complesse tra i diversi stili musicali, spesso sorprendenti, ma possiamo riconoscerle e ammetterle solo se ascoltiamo con orecchie aperte. Il problema è stato quello di scrivere il libro senza rimanere bloccato in una narrazione cronologica».

Oceano di suono si rivela, infatti, un ottovolante vertiginoso, che incrocia la rave culture alle partiture di Debussy e Satie, l’afrofuturismo alla scrittura di Thomas Pynchon, l’ipercinetica di Aphex Twin con La Monte Young più minimalista. «Scrivendo nel 1995, sono stato influenzato dall’idea dell’ipertesto, o della scrittura non lineare -prosegue -. Ho scritto il primo passaggio del libro – la memoria – come un esame speculativo dell’ascolto e delle sue possibilità all’interno della fisicità e dell’immaginazione. Poi non sono riuscito a scrivere nulla per più di un mese, ma all’improvviso mi sono reso conto che gli elementi frammentati e semi-fittizi della sezione sulla memoria erano liberatori. Potevo scrivere in uno stile modulare senza necessariamente collegare ogni blocco di testo. L’approccio era più vicino a un campionamento hip hop che a un testo accademico scritto di getto, ma questo si adattava alla storia che stavo cercando di raccontare, che era di per sé dispersiva».

UNA MOLE DI STIMOLI

Questo lavoro di Toop raccoglie una mole di stimoli che sembrano provenire da una vita di esperienze, ascolti, letture, studi che dopo la pubblicazione del libro hanno trovato una interessante propaggine nella compilation omonima del 1996. Pubblicata su doppio cd e su Virgin Records, Ocean of Sound senza dubbio non lascia indifferenti e prova a fare sintesi fra le più interessanti sollecitazioni uditive inserite nel libro: si passa da King Tubby a Herbie Hancock, da Debussy ai My Bloody Valentine, da Brian Eno a Miles Davis, da Ornette Coleman ai Velvet Underground. Il filo rosso che unisce le 32 tracce è proprio la stratificazione di idee e concetti formalizzati da Toop, che tracciando la storia della ambient music riesce a creare un percorso accattivante nell’evoluzione del suono contemporaneo. «La mia esperienza nella scrittura di libri è che non si sa bene cosa si sta facendo fino a quando non si è finito, a volte anche fino a un anno dopo. Sapevo che scrivere di musica ambient apriva molte possibilità, ma la stesura del libro è stata piuttosto febbrile e intuitiva. Stavo scoprendo il mio soggetto mentre lavoravo. Cercavo un tema comune a tutte le musiche che volevo trattare, un’idea di musica che si apre a un mondo in rapida espansione, e questo mi ha riportato a Debussy che ascolta la musica giavanese all’Esposizione di Parigi del 1889. Naturalmente non sappiamo cosa pensassero i musicisti giavanesi di trovarsi a Parigi, quindi si tratta di un resoconto parziale e sbilanciato, ma per Debussy dire, come fece, che per certi aspetti la musica giavanese era superiore alla musica composta europea fu un momento significativo, un segno futuristico di potenziale uguaglianza in un’epoca di tossiche teorie razziali».

IBRIDAZIONI

Oceano di suono ha infatti anticipato alcuni dei temi che oggi sono di assoluta rilevanza, non solo nel mondo della musica ma nel panorama culturale planetario. Uno dei più importanti è quello che riguarda la smaterializzazione del supporto fonografico, un avvenimento di proporzioni titaniche per l’industria musicale del nuovo millennio e che nel libro viene subliminalmente anticipato e analizzato. «Il concetto di musica come file digitale è estremamente utile, ad esempio per facilitarne lo scambio, ma alla fine si degrada. Tutti i file digitali sono fondamentalmente uguali, quindi iniziamo a perdere la consapevolezza della differenza nel modo in cui sperimentiamo il mondo attraverso i nostri sensi. Chi sta facendo la musica? Qual è la loro situazione? Dove si trovano? Trovo ancora sorprendente la differenza tra suonare dal vivo, in una stanza risonante o all’aperto, e poi ascoltare con gli auricolari un brano sul mio telefono. Posso godermi entrambe le cose, ma sono esperienze completamente diverse. Oggi è più facile pubblicare musica, è più facile che la gente la ascolti, è più facile entrare in contatto con musicisti e ascoltatori che la pensano allo stesso modo, è più facile spostarsi. Questo crea un tipo diverso di artista, forse non così eccentrico, ma che deve essere ancora determinato per arrivare da qualche parte».

La musica come «ibridazione di ibridi», scrive Toop, in cui epoche e stili si compenetrano in maniera liquida e dove il sample assume il ruolo di tassello basico di partenza. L’importante è ampliare le prospettive, sovvertire le dinamiche del già sentito e muoversi nel tempo e nello spazio in maniera inedita rispetto al passato. Leggendo Oceano di suono appare con evidenza come la musica abbia avuto un’influenza trasversale su tutte le arti del Novecento nonché sulla vita sociale collettiva, un valore ora alterato per un intreccio di cause eterogenee, prima fra tutti la mutazione delle modalità di fruizione dei brani e la perdita di valore dell’album come opera concettuale. Rispetto a quanto narrato nel libro, oggi si è probabilmente raggiunto un punto diametralmente opposto al concetto di deep listening, con ascoltatori che prediligono i micro-altoparlanti dei loro smartphone per l’ascolto della propria musica digitale preferita. «La musica è una costante umana, che si trova ovunque – continua -, ma non c’è dubbio che il suo significato sia cambiato negli ultimi ventotto anni, da quando ho scritto Oceano di suono. La produzione e la distribuzione digitale hanno cambiato molti aspetti del rapporto tra musica, individui, società e tecnologie, ma continuiamo a sentire musica ovunque e a vedere persone che ascoltano musica ovunque. Comprendere questi cambiamenti è difficile quando ci si trova al loro interno. Le cuffie, ad esempio, possono portare a un ascolto più profondo perché si concentrano sul suono nel dettaglio, ma le cuffie ci avvolgono anche in uno spazio privato che ha pochissimo accesso allo spazio aperto, alla distanza, all’intervento casuale o ad altri esseri. È troppo generico parlare di un solo tipo di musica prodotta dalla generazione degli anni Duemila; ci sono molte varianti e tutte rispondono a desideri diversi. Si potrebbe dire che le cuffie fanno suonare meglio la musica, ma ci sono altre dimensioni dell’ascolto che sono importanti, in particolare la sensazione che le vibrazioni siano trasportate dall’aria e che l’aria vibrante compenetri il corpo attraverso i suoi orifizi. La fisicità della musica cambia in ogni epoca, in parte a causa dei progressi tecnologici. Oggi la musica mi sembra molto ricca e lussureggiante, ma se ascolto una registrazione fatta negli anni Venti, Cinquanta o Ottanta, questa ha una sua energia particolare, anch’essa molto coinvolgente».

UNA COSTANTE

E proprio la fisicità della musica, delle onde sonore che attraversano la materia, è una costante silenziosa del libro di Toop, che racconta come dalla cultura dei rave sia derivata quella ambient, colonna sonora d’elezione delle sale chill out, nate appositamente per la necessaria decompressione afterparty. Lo scrittore inglese si destreggia perfettamente fra i mix di quell’epoca e i producer che hanno fatto storia, forte di un’esperienza nell’underground musicale che spazia dall’elettronica alla sperimentazione, dal rock al jazz. Il passepartout per accedere a questi ambienti arriva non solo dalle riviste per cui scrive – come The Wire e The Face – ma anche dalla sua attività di musicista d’avanguardia, capace di discettare di musica concreta e jazz elettrico, post punk e acid house. «Faccio musica in due modi: improvvisando dal vivo o componendo al computer. In un certo senso i miei libri, o tutti i miei scritti, sono improvvisati. Mi preparo in anticipo, ma non pianifico molto, lascio solo che (si spera) le idee fluiscano e si colleghino. La struttura nasce dall’ascolto e dall’esperienza. Comporre al computer richiede una serie di abilità diverse, più legate al “taglia e incolla”, alla stratificazione, alla riduzione, all’editing e così via, quindi i due approcci si completano a vicenda. Mi aiutano a rischiare, a modificare mentre scrivo, a essere consapevole del flusso ritmico e del suono di un testo, della sua poesia».

Accorciando le distanze continentali e divincolandosi con esuberanza attraverso le maglie dei generi, in una manciata di pagine Toop è capace di affiancare il rumorismo di Filippo Tommaso Marinetti alla patafisica di Alfred Jarry, la «musica proletaria» russa ai riti funebri delle foreste pluviali brasiliane. Uno sforzo di sintesi esemplare, che effettivamente anticipa il superamento della linearità testuale, per certi versi liberando la critica musicale da un’impostazione formale per molti versi anacronistica. Ecco dunque che la stessa musica ambient va a determinare non tanto un genere, quanto una modalità d’ascolto, un «atteggiamento». Citando Brian Eno: «L’ambient music deve poter conciliare vari livelli d’attenzione uditiva senza imporne uno in particolare: dev’essere tanto interessante quanto ignorabile». Il parallelo con la pittura di Mark Rothko e le tele nere di Ad Reinhardt diventa quindi naturale, così come diventa possibile tracciare una linea di collegamento fra le composizioni di Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich e i riti indiani, balinesi, giavanesi, marocchini che basano la propria liturgia nell’espressione musicale.

CONNESSIONI

La crossmedialità prende dunque il sopravvento, contribuendo a smantellare la rigidità della critica contemporanea che ancora mantiene scomparti chiusi fra la musica e le altre arti. «Gli artisti hanno pratiche basate su percezioni del mondo molto diverse – prosegue Toop -, ma vedo sempre più movimenti o connessioni incrociate tra le pratiche del vedere, del sentire, del fare e del pensare. Con molti artisti, oggi, è difficile dire quale sia la loro specializzazione. Lavorano semplicemente con idee, materiali, processi e canali di distribuzione. È inutile essere un critico d’arte del XXI secolo se non si capisce cosa succede nel lavoro sul suono o nella musica». Per comprenderlo, Toop arriva a spingersi nel territorio dei sogni, anticipando l’attrazione che dopo qualche anno ci sarà per tutto ciò che è ipnagogico, ma anche individuando artisti e culture che pongono lo stato onirico al centro della propria arte. Fra questi è necessario citare almeno Richard «Aphex Twin» James e David Lynch. Il primo indica Selected Ambient Works Volume II come il tentativo di riversare su disco lo «stare dentro una centrale elettrica strafatti di acido. Senti l’elettricità intorno a te. Per me è esattamente come un sogno. È un album molto particolare, perché al 70 percento nasce dai miei sogni lucidi». E proprio dai sogni Aphex Twin ha tirato fuori una miriade di tracce, immaginate in stato di incoscienza e trascritte nell’immediato risveglio. Per Lynch il rapporto fra creatività e sogno è ancora più esplicito, così come l’interesse nell’ottenere l’effetto «eerie» in tutte le sue produzioni (dal cinema alla tv, dalla pittura alla musica). In Oceano di suono Toop racconta di una visita nell’abitazione del regista a Los Angeles, durante la quale Lynch spiega che alcune scene della serie Twin Peaks sono state girate interamente alla rovescia, cominciando dalla fine, con tutti i movimenti di camera al contrario. «Certi suoni sono impossibili da riprodurre alla rovescia – spiega l’autore di Mulholland Drive -. Era una cosa che volevo approfondire, perché ha un che di rarefatto in termini visivi e d’atmosfera».

Si torna dunque a un discorso relativo all’attitudine più che al mero stile, alla possibilità che i suoni inducano in uno stato psicofisico e grazie a cui «l’elettronica, l’immateriale e la spiritualità sono diventati sinonimi». Ma oggi è ancora possibile parlare di musica ambient? E quali caratteristiche la distinguono da quella che a metà anni Novanta portò David Toop a scrivere in poche settimane Oceano di suono? «La musica ambient è diventata una categoria consolidata – conclude lo scrittore -, sebbene questo la renda maggiormente conservatrice, forse priva dell’apertura che mi ha ispirato a scrivere Oceano di suono. Parlo di ambient industriale che è un genere definito rivolto a persone che vogliono identificarsi con qualità o aspirazioni specifiche. La vera musica ambient non ha nessuna di queste aspirazioni. Vuole semplicemente essere aperta al mondo».

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