Visioni

David Tennant, «L’ironia dell’apocalisse»

David Tennant, «L’ironia dell’apocalisse»

Intervista Parla il protagonista della serie tv «Good Omens», dove interpreta il demone Crowley

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 12 giugno 2019
Luca Celada LOS ANGELES

Basato sul romanzo cult di Terry Pratchett e Neil Gaiman (Buona apocalisse a tutti), Good Omens è un’opera buffa di fantascienza escatologica frutto di una coproduzione Amazon/Bbc, uscito in questi giorni sulla piattaforma digitale. La cronaca gioiosamente eretica dell’apocalisse vede protagonisti l’angelo Azraphel e il demone Crowley di stanza sulla terra dove si gioca la partita definitiva per l’anima degli uomini. Impegnati dalle rispettive «azienda» nei preparativi per lo scontro finale programmato come da profezia sulla piana di Megiddo, i due sono incaricati di preparare il terreno per il giudizio universale. Ma nel corso dei millenni passati sulla terra, al pianeta e ai suoi imperfetti tenutari si sono in realtà parecchio affezionati. Di qui una serie di contrattempi che vede i due progressivamente meno sensibili alle politiche delle rispettive parti ed infine alleati in un intreccio che comprende un libro di profezie, un ordine di scalcinati cacciatori di streghe, un anticristo ambivalente ed un fatale scambio di neonati.

Un lavoro dalle marcate assonanze con Guida galattica per autostoppisti nell’ironia inglese, caustica ed erudita e, non ultimo, un analogo percorso da libro a sceneggiato radiofonico ed infine serie televisiva. Nei panni di Azraphel, angelo in crisi di mezza-eternità con un debole per l’alta cucina, c’è Michael Sheen. In quelli del demone Crowley che dai tempi in cui si era trasformato in serpente per recapitare una certa mela ha sviluppato un’insofferenza da rock star annoiata alle direttive che provengono dall’ufficio centrale, David Tennant.

Il demone Crowley potrebbe essere definito un antieroe?
Sì, anche se direi che in fondo in un certo senso è lui il «buono», anche se nessuno dei due fa molto bene il proprio lavoro. Sono sulla terra da troppo tempo e ormai per loro il confine fra bianco nero si è confuso, sono stati decisamente sedotti da quell’ambiguità molto umana ed è per questo che sono così affezionati al pianeta ed ai suoi abitanti. Adoro l’indifferenza del mio personaggio e il fatto che in fondo stia dalla parte degli angeli, malgrado le sue tirate contro di loro.

È satira religiosa?
Si svolge all’interno di quel contesto cattolico del Diavolo e di Dio, in quel mondo manicheo da catechismo della domenica. Poi ovviamente il registro è l’ironia e l’occhiolino complice che credo derivi da una prospettiva squisitamente inglese. Si serve di certi dogmi con cui tutti siamo cresciuti a fini satirici.

Lei però è scozzese.
Io sono scozzese, Michael (Sheen, ndr) è gallese. Il nostro regista è ancora più settentrionale di me, quindi ne abbiamo parlato molto e a abbiamo convenuto che il tono e l’umorismo dovessero essere decisamente inglesi piuttosto che celtici. Inizialmente sia io che Michael ci eravamo chiesti se dovessimo usare i nostri accenti naturali ma abbiamo rapidamente deciso di no: sono personaggi inglesi, con tutta l’eleganza che questo implica.

È vero che suo padre era un ministro protestante?
Sì e credo che si sarebbe divertito un mondo a guardare Good Omens. Avrebbe certamente apprezzato tutte le nozioni bibliche di cui era grande esperto. Ed aveva anche un senso dell’umorismo simile. Era appassionato del Goon Show e di quella comicità un po’ assurda che credo abbia influenzato anche la scrittura di Neil e Terry.

Quali sono state le sue ispirazioni?
Da ragazzo certamente programmi come Dr Who mi hanno in qualche modo «formato» e influenzato. Ricordo di aver guardato molto anche la serie televisiva di Hulk. In generale l’idea di persone che «fingevano» per raccontare delle storie mi affascinava, è per questo che sono voluto diventare un attore. Da adulto ricordo di essere andato a teatro a vedere Mark Rylance che faceva Amleto. È stato abbastanza formativo vedere ciò che riusciva a fare con Shakespeare, come sapeva rendere sempre attuali quei testi. Poi Anthony Hopkins in Quel che resta del giorno, una performance in cui non fa assolutamente nulla pur trasmettendo mondi di dolore e rimpianto. O i testi di Aaron Sorkin, l’idea di pronunciare quelle parole e quei discorsi intelligentissimi al ritmo di un dialogo di Cary Grant in La signora del venerdì, quella destrezza pura di pensieri e dialoghi.

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