Il poeta e pittore visionario inglese William Blake scrisse che solo «la strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza»… Si tratta di una massima alla quale moltissimi dei protagonisti del mondo della musica rock si sono attenuti, con alterni risultati. In effetti la dimensione dell’eccesso, dell’oltrepassamento del limite, sembra in qualche modo esser connaturata a certe espressioni creative, tuttavia vi sono anche stati e vi sono tuttora artisti che percorrono un itinerario inverso, procedendo per sottrazione, riconducendo il tutto all’apparente nulla…

È il caso di David Sylvian, uno dei protagonisti assoluti della scena sperimentale britannica degli ultimi trenta anni, in una vita precedente insieme ai Japan, prototipo perfetto dell’icona pop, bellissimo, ossigenato, dalla presenza magnetica, ha preferito abbandonare ogni ipotesi divistica e di facile successo per intraprendere un percorso alla ricerca di sé e delle proprie profonde esigenze espressive.

È la sua storia raccontata in una corposa biografia dello scrittore e giornalista Christopher E. Young On the Periphery (Malin Publishing, pp. 384, euro 29,55) dedicata esclusivamente alla parabola solistica di Sylvian, iniziata esattamente trenta anni fa; si tratta di una vicenda in perenne evoluzione, piena di ripensamenti, anche di sofferenze (Sylvian ha attraversato momenti di depressione clinica ed ha fatto uso di cocaina), ma nella quale non è difficile rintracciare un senso di linearità, che è appunto rintracciabile nella volontà di mirare all’essenziale, spogliando la propria musica (ed il proprio personaggio) da qualsiasi orpello tipico della concezione rock-pop.

Da artista coraggioso dunque Sylvian intraprende una carriera solistica con il manifesto intento di dissipare il consenso conquistato negli anni precedenti e di crearsi una nuova credibilità negli ambienti della sperimentazione radicale, una scelta che lo porterà a confrontarsi e collaborare con musicisti quali Sakamoto e Fripp, sino ai protagonisti della scena jazz che si raccoglie attorno all’etichetta ECM. Per tutti gli anni ottanta alternerà splendidi lavori ancora legati alla tradizione cantautorale (fra gli altri, Secrets of the Beehive, del 1987), in cui sembra rileggere con personalità la lezione di Nick Drake, ad altri episodi più dichiaratamente sperimentali. Poi, con sporadiche eccezioni, si ritirerà progressivamente da ogni ribalta per elaborare una sintesi che fosse solo ed esclusivamente sua. Occorreranno anni per ascoltare un suo nuovo album solista di canzoni, nel 1999, ma Sylvian è oramai oltre e quello che pare essere la sua tensione artistica è la decostruzione del formato canzone: crea una sua etichetta discografica, per non avere condizionamenti di sorta.

Se esiste una ipotesi radicale di scomposizione dei linguaggi popolari, la dobbiamo proprio all’artista inglese e alla sua coraggiosa e pervicace volontà di posizionarsi in una terra di nessuno, alla periferia dei linguaggi già codificati. La sua ipotesi, per qualche strano meccanismo di ricezione, è sempre stata accolta con particolare favore proprio nel nostro paese e brani dell’opus sylvianiano compaiono sovente anche nelle colonne sonore dei film di Carlo Verdone, tanto per dirne una…