Visioni

David McVicar nel caleidoscopico mondo di Richard Wagner

Una scena da «Der Ring Des Nibelungen»Una scena da «Der Ring Des Nibelungen» – foto di Brescia/Amisano-La Scala

A teatro In scena alla Scala l'allestimento dell'opera del grande compositore «Der Ring Des Nibelungen»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 2 novembre 2024

Il Teatro alla Scala, che per tutto l’Ottocento ha accolto con circospezione e in ritardo le opere di Richard Wagner, grazie all’intelligenza impareggiabile di Toscanini nel Novecento è diventato una vera e propria cattedrale wagneriana. L’allestimento completo del suo capolavoro, la tetralogia Der Ring des Nibelungen, va in scena, ancora in versione italiana, nel 1927, 1928 e 1931 diretto da Panizza, nel 1930 da Siegfried Wagner e nel 1943 da Hösslin.

Dopo un primo esperimento nel 1938 sotto la direzione di Krauss, dagli anni Cinquanta la tetralogia viene sempre rappresentata in lingua originale: nel 1950 diretta da Furtwängler, nel 1963 da Cluytens, nel 1974 (solo le prime due opere) da Sawallisch, tra il 1994 e il 1998 da Muti e infine tra il 2010 e il 2013 da Barenboim. In questi giorni è in scena la prima delle quattro giornate del Ring, Das Rheingold, cui seguiranno nel 2025 Die Walküre e Siegfried, nel 2026 Götterdämmerung e due cicli completi, come accadde solo nel 1963 e nel 2013. In origine la tetralogia doveva essere diretta da Christian Thielemann, che ha dato forfait per «questioni di salute». In attesa di sapere chi dirigerà le altre tre giornate, sul podio di Rheingold si alternano Simone Young, che ha già diretto l’intero Ring a Vienna, Berlino, Amburgo e Bayreuth, e Alexander Soddy, che si è cimentato con la tetralogia a Mannheim.

POSTO che il Ring, gigantesco, complesso, verboso, ridondante, eroico, lirico, caleidoscopico, è una delle vette più impervie del teatro musicale di tutti i tempi, la sera della prima di Rheingold Young si è avventurata nella partitura sforzandosi di movimentare e infuocare a tutti i costi la sovrana indifferenza wagneriana per l’azione, alterando quel disegno geniale e cinico di rendere l’opera niente più (o niente meno) che sinfonismo in forma drammatica e non riuscendo a mettere a fuoco la misura tra grandiosità e sfumature che pure c’è in questo universo drammaturgico-musicale apparentemente smisurato. Il pubblico, dunque, l’ha applaudita tiepidamente e in pare buata. Incomprensibilmente buato anche il regista David McVicar, già cimentatosi col Ring all’Opéra national du Rhin, che ha immaginato questo allestimento come «un arco teso verso la conclusione. Già dalle prime battute di musica, in cui avverti lo scorrere del fiume, bisogna immaginarsi l’epilogo.

SAREBBE impossibile pensare un lavoro del genere opera per opera», senza però dimenticare che tra Rheingold e la prima rappresentazione completa del Ring passarono più di vent’anni, «durante i quali Wagner è cambiato profondamente, prima un socialista anarchico rivoluzionario, poi un uomo disilluso che ha accettato il fallimento dei suoi ideali giovanili. Di fondo, però, resta che il Ring, al di là di incongruenze e ripensamenti, è un’opera unitaria». Gli umorali loggionisti, legati a un’idea di teatro tradizionale che nel caso del Ring, precursore del fantasy, è francamente incomprensibile, non si sono accorti che, a differenza di Young, McVicar, con l’aiuto della scenografa Hannah Postlethwaite, della costumista Emma Kingsbury, del light designer David Finn, della videomaker Katy Tucker, del coreografo Gareth Mole e del maestro di arti marziali David Greeves, è riuscito a trovare una misura nell’animare la ieraticità del libretto e nel dare un corpo all’astrattezza dei leitmotiv su cui Wagner ha puntato tutto, a partire dall’oro giacente sul letto del Reno da cui inizia la storia… Ottimo il cast, con l’inossidabile Michael Volle (Wotan), Ólafur Sigurdarson (Alberich), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Mime), Norbert Ernst (Loge), Okka von der Damerau (Fricka), Olga Bezsmertna (Freia), Christa Mayer (Erda).

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