David J. Chalmers, l’insostenibile equivalenza tra reale e virtuale
Joe Tilson, «La vista» da «I cinque sensi», 1968
Alias Domenica

David J. Chalmers, l’insostenibile equivalenza tra reale e virtuale

Tecnofilosofi australiani Fra i dubbi di Cartesio e le certezze di Nick Bostrom, secondo il quale siamo più plausibilmente simulazioni che non umani veri e propri: una discussione delle tesi di David J. Chalmers in «Più realtà», da Raffaello Cortina
Pubblicato circa un anno faEdizione del 10 settembre 2023

Nel 1641, un anno prima che Pascal inventasse la calcolatrice, in un mondo in cui «virtuale» o «intelligenza artificiale» non dicevano niente a nessuno, e si sentiva piuttosto l’urgenza di dare una nuova fondazione al sapere liberandosi dai retaggi tradizionali della Scolastica e delle idee trasmesse per abitudine, Cartesio aveva messo in dubbio l’esistenza del mondo esterno. Prima dubitando dei sensi (dubbio naturale) poi ipotizzando un genio maligno che si diverte a darci informazioni sbagliate sulle principali verità logiche, matematiche e ontologiche (dubbio iperbolico).

Non lo faceva per far sì che i lettori, dopo che aveva sciorinato tante audacie e ipotesi ingegnose, esclamassero «Wow!». I suoi obiettivi erano seri e giudiziosi: superata la prova del dubbio, voleva rifondare il sapere, per raggiungere un nocciolo indubitabile, il Cogito, che pensa e  dunque necessariamente esiste.

Poi, considerando che il Cogito possiede la netta consapevolezza di essere limitato nel tempo, nello spazio e nelle facoltà, ne inferiva che deve esistere un essere infinito e dotato di ogni perfezione (altrimenti non ci sentiremmo tanto imperfetti), Dio, che si fa garante della certezza della nostra conoscenza.

Sebbene prenda avvio dal ragionamento di Cartesio, in Più realtà I mondi virtuali e i problemi della filosofia  (Cortina, pp. 624, € 33,00) il filosofo australiano David J. Chalmers conserva l’obiettivo di dimostrare che le nostre esperienze sono in gran parte vere (anche se ci capita di sognare, di sbagliarci o di avere allucinazioni): siamo nel quadro di quella che chiama «tecnofilosofia», non una filosofia applicata alla tecnica, ma una filosofia ispirata dalla tecnica.

Ora, se la tecnica oggi è essenzialmente informatica, capace di creare la realtà virtuale, l’idea di Chalmers è che la realtà virtuale, fatta di bit, è altrettanto reale di quella non virtuale, fatta di atomi (poi di molecole, poi di cellule…), e questo per il semplice motivo che tanto alla base dei bit quanto degli atomi ci sono degli stati quantici.

Dunque, è reale tanto la puzzola che incontro, per mia disgrazia, nel mondo quanto quella in cui, per avventura, mi imbatto nel Metaverso.

Chalmers è anche sensibile all’argomento avanzato un decennio fa dal filosofo svedese Nick Bostrom nel suo Superintelligenza (Bollati Boringhieri), secondo cui, essendo la realtà virtuale molto più facile da produrre che non quella reale, è statisticamente più plausibile il fatto che noi siamo delle simulazioni di umani che non umani veri e propri (la simulazione ovviamente sarebbe dotata di antenati, parenti e amici simulati).

La sola differenza rispetto a Bostrom, nella versione di Chalmers, è che mentre il primo ritiene che la probabilità che ognuno di noi sia una simulazione è del 99%, per il secondo cala al 25%. Potete credere all’uno, all’altro, o a nessuno dei due, ma vi prego di credere – oltre al fatto che, con probabilità maggiore o minore, ognuno di noi potrebbe essere fatto di bit e non di cellule – che quanto ho riassunto sin qui non è un romanzo di fantascienza, bensì la teoria di uno dei più affermati filosofi contemporanei, docente di filosofia e neuroscienze alla New York University.

Quanto a Nick Bostrom, egli  dirige il Future of Humanity Institute alla Università di Oxford.

Di per sé, la prospettiva di Chalmers, come lui stesso ammette, è molto vicina a quella di George Berkeley, il quale però credeva che esistessero soltanto idee, percepite dagli umani che ne sperimentavano l’efficacia attraverso l’esperienza sensibile, e garantite nella loro esistenza (quando degli umani non le percepiscono, per esempio perché dormono o sono in un’altra stanza) dalla volontà di Dio in quanto ricettacolo di tutte le idee.

Una dottrina affascinante ma stravagante che ha avuto, in tempi più o meno recenti, solo due paladini: il filosofo italiano Giovanni Gentile, che prende avvio da Berkeley nella sua Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e il britannico John Foster in The Case For Idealism (1982). Entrambi, però, erano abbastanza coerenti da definire le loro teorie come idealiste, appunto perché in entrambi i casi il mondo è fatto di idee.

Viceversa, tanto Bostrom quanto, e con maggiore determinazione, Chalmers, si proclamano realisti.

Poiché Chalmers è australiano, dunque viene dal continente che nel Ventesimo secolo (una età che in filosofia è stata per lo più costruzionista, ossia idealista) è rimasto ostinatamente realista, si tratta per lui, in qualche modo, di tener fede a un vessillo nazionale, a un marchio di fabbrica. Ma si ha ragione di supporre che lo faccia per mera abitudine e quasi assecondando un meccanismo irriflesso, perché non c’è assolutamente nulla, nella sua Più realtà (Reality+ nell’originale), che impedisca di intitolare il suo libro Più idealità, o magari Premium Idealism o Technoidealism.

È  evidente, per tornare all’esempio fatto in partenza, che la puzzola fatta di bit non ha molto in comune, tranne la forma, con la puzzola fatta di cellule.

A dire il vero, non è neppure chiaro come un bit potrebbe, per esempio, simulare un cattivo odore, né se la sim-puzzola (la puzzola simulata composta di bit) abbia bisogno di nutrirsi, e se il nutrimento consista in elettricità o in altro; se cresca, si riproduca, invecchi o muoia, caratteristiche salienti delle puzzole non simulate, ossia delle puzzole reali.

Ontologicamente inverosimile, la puzzola ideale (e non reale come tutto il resto, come pretende Chalmers) soggiace insomma alle stesse obiezioni che, tre secoli fa, Thomas Reid muoveva a Berkeley: se essere è essere percepito, e se ciò che percepiamo sono idee, come è possibile che l’ago punga e l’idea dell’ago no? E se è vero che non ci costa molto pensare che il sole o le stelle, insomma cose molto lontane con cui abbiamo relazioni a distanza e non scambievoli, siano semplici idee che vengono percepite come sole e stelle dai nostri sensi, è nondimeno più difficile pensare lo stesso di parenti e amici.

Davvero staremmo al capezzale di un parente malato se pensassimo che è soltanto una idea o – per riprendere il gergo di Chalmers – un sim-zio o un sim-nonno?

C’è poi un quesito che né Bostrom né Chalmers affrontano, e che pure dovrebbe risultare cruciale per dei filosofi realisti.

Chi paga? Chi si prende la briga di trovare tutta l’energia necessaria a tenere in piedi il sim-edificio di una sim-realtà che, sebbene in proporzioni diverse, entrambi ritengono occupare uno spazio rilevante quando non predominante nel mondo? Chi ha installato le enormi centrali elettriche necessarie per generare tutti quei bit? Dove sono? Chi le amministra?

Se sono semplicemente quelle già esistenti, come è possibile – allora – che degli otto miliardi e passa abitanti della terra, una parte dei quali, non dimentichiamolo, non è ancora inclusa nel Web, la maggioranza o un quarto siano simulazioni?

Nell’idealismo di Berkeley, a produrre le idee pensava Dio onnipotente, e il problema era risolto alla radice, purché si ammettesse l’esistenza di Dio.  Ma nella più realtà o sim-realtà di cui ci vengono descritte in piena serietà le caratteristiche nell’arco di 624 pagine non mi sembra di aver trovato risposta a questo interrogativo.

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