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David Hume e il diritto innaturale all’obbedienza

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Saggi La recente pubblicazione del saggio «Il governo dell’opinione. Politica e costituzione in David Hume» del filosofo Luca Cobbe consente di ripercorrere la genesi della concezione ora dominante del «soggetto» e del rapporto tra governanti e governati

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 5 settembre 2014

Con distaccato disincanto, alla metà del Settecento, David Hume osserva un fatto che si dimostrerà cruciale per l’imminente stagione rivoluzionaria sulle due sponde dell’Atlantico. Egli nota che «nulla appare più sorprendente della facilità con cui la maggioranza è governata da una minoranza e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunziano ai propri sentimenti e alle proprie passioni a favore di quelle di chi governa». Questa subordinazione gli appare ancora più singolare, a fronte dell’evidente possibilità dei governati di fare ricorso in ogni momento alla forza del loro numero. E invece obbediscono. La risposta all’enigma dell’obbedienza è per Hume l’opinione. Ogni governo deve costantemente fare i conti con questo insieme di esperienze, credenze e intelletto, dipendendo da esso, mentre allo stesso tempo cerca di indirizzarlo per garantire la propria legittimità.
Il volume di Luca Cobbe, Il governo dell’opinione. Politica e costituzione in David Hume (Macerata, euro 19) ricostruisce con precisione la scoperta humeana della società quale spazio ordinato di comunicazione delle opinioni, dove gli individui apprendono a conoscere le proprie possibilità d’azione e quelle che possono produrre grazie alle loro relazioni. In questo spazio il governo che gli individui esercitano su stessi diviene anche il presupposto necessario per il governo politico. Questo governo tanto individuale quanto collettivo si fonda su un sistema di condotte che non è prodotto da un’azione disciplinare che procede semplicemente dall’alto verso il basso, ma da un complesso reticolo di relazioni, fondato in primo luogo sull’immaginazione. In questo modo, lungi dall’essere una mera imposizione, l’autorità diviene una costruzione fondata sull’immaginazione della giustizia e quindi su regole condivise per la sua applicazione. Essa non è mai qualcosa che deriva dal passato, a cui obbedire meccanicamente, ma corrisponde al «potere di produrre qualcosa che non esiste».

Il rebus dell’apprendimento

L’opinione è sempre vissuta all’ombra del sospetto di essere portatrice di caos. Essa è stata considerata il pensiero del desiderio individuale in opposizione al bene comune o, peggio ancora, a quello di tutti. L’ordine della scienza, della sovranità, della proprietà è stato storicamente la risposta all’instabilità delle opinioni, mirando a garantire un canone universalmente accettato sulla conoscenza, la politica, l’economia. Come Cobbe dimostra, Hume stabilisce una nuova epistemologia politica grazie alla quale opinione e individuo divengono gli elementi fondamentali di un diverso sistema d’ordine. In primo luogo l’opinione è sottratta alla sua dimensione puramente individuale, per indagare quali forze contribuiscano alla sua formazione, mostrando quanto l’immaginazione, le credenze e l’intelletto degli individui dipendano da forze non individuali.
L’opinione in Hume non è la risposta solitaria a una realtà estranea ed esterna. Di conseguenza l’individuo non è determinato da una riserva di potere conoscitivo, politico o economico che può fare fruttare nei limiti posti dalla presenza di altri individui simili a lui. Si tratta piuttosto di un individuo che apprende nel confronto e nello scontro con gli altri individui, venendo in questo modo silenziosamente spodestato dalla posizione di presupposto unico e unitario dell’ordine politico.

Un individuo sociale

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Questo individuo viene «relativizzato», perché la sua costante opera di apprendimento non può collocarlo in una posizione politica chiaramente definita. Come sovente fa anche su altri terreni, Hume non parla dell’individuo distaccandosi in maniera eclatante da coloro che lo hanno preceduto. Egli introduce piuttosto gli spostamenti, apparentemente parziali e marginali, che finiscono però per innovare in maniera significativa il quadro complessivo.
L’individuo di Hume non è così quello di Hobbes – libero e uguale e, proprio per questo, bisognoso di una sovranità assoluta in grado di limitarne i movimenti – ma non è nemmeno quello di Locke, che in fondo non è mai davvero uguale, perché definito all’origine dal suo rapporto con la proprietà. L’individuo di Hume non esiste senza la società e solo al suo interno, cioè nella comunicazione costante con gli altri individui, viene prodotto e agisce. Non si tratta però di un’astratta celebrazione delle comunicazioni e delle loro interazioni, ma della «scoperta» di quel nuovo spazio comunicativo che è la società. La scoperta della società è l’esito più rivelante dell’epistemologia politica di Hume. Essa è un sistema di riferimento in grado di stabilire regole di condotta che si possono trascendere individualmente solo se non ne viene messa in discussione la validità complessiva.
La società è lo spazio presente che dà significato al passato, grazie all’immaginazione del futuro che la costituisce. Essa finisce così per essere l’ordine gerarchico che si afferma tra individui uguali, nel quale la gerarchia però non è la semplice persistenza del passato, ma il costante apprendimento di un potere presente all’interno della relazione societaria. La storia assume così il rango di fattore costitutivo dell’agire per l’influenza che costantemente esercita sulla formazione delle opinioni e delle azioni presenti, diventando un fattore di legittimazione e di costante, potenziale delegittimazione.
La storia della società ridetermina in continuazione che cosa può essere un individuo, secondo uno schema sconosciuto all’individualismo classico. La dottrina di Hume registra di conseguenza il tramonto delle tradizionali dottrine del diritto naturale, cioè della possibilità di fondare la legittimità politica su comandi immutabili che dovrebbero essere inscritti direttamente nella mente degli uomini. Essa però non può nemmeno accettare le teorie del contratto sociale, cioè l’idea che la costituzione politica presente debba la propria legittimità a un patto che nessuno dei viventi ha stipulato. Quando parla di governo Hume non ne fa una categoria metastorica che coincide con l’evidenza che gli uomini si sono sempre sottoposti a una qualche forma di potere. Come ben dimostra Cobbe, Hume registra che la presenza di una pluralità di forme di governo degli uomini, proprio perché non presume che gli individui possano obbedire solo per paura o per un consenso sempre già dato.
Le pratiche di autodisciplinamento che gli individui sviluppano in continuazione sono la condizione di possibilità di un governo che poi esiste per limitare la loro libertà. La trasformazione inavvertita ma radicale alla quale è stato sottoposto il concetto di individuo divine così il fondamento della mutata concezione del governo. Quest’ultimo non è la forza esercitata in ultima istanza per impedire agli uomini di affermare le proprie individuali e distruttive passioni, ma non è nemmeno una sorta di replica sul piano collettivo di una regolazione già completamente maturata su quello individuale. Esso è un prodotto della società, non il presupposto della sua costituzione, e per questa ragione esso non è «assoluto» nel senso consolidato del termine, ma piuttosto un governo tra altri che ugualmente producono, regolano e limitano l’agire degli individui. Il governo politico vive cioè della parzialità delle opinioni che lo consentono, così come la società stessa è attraversata da parzialità che tali rimangano nonostante la sintesi operata dalla società stessa.
La costituzione diviene così lo specifico spazio istituito tanto dalle contradditorie opinioni del popolo, che Hume si rifiuta di trattare con il disprezzo che fino a quel momento gli riserva la tradizione politica, quanto dalle necessarie decisioni del governo. In una società costituita da parti senza un’unità precostituita, la legge, in quanto espressione del comando sovrano destinata a regolare con i suoi divieti e i suoi silenzi la società, viene anch’essa relativizzata nella sua rilevanza, così come abbiamo visto succedere a proposito dell’individuo e del governo. Essa non esprime la sola modalità di regolazione rispetto alla quale si contrappone l’eccezione come risposta alle emergenze occasionali.

La paradossale normalità

La società di Hume è una paradossale condizione di normalità che, non essendo garantita esclusivamente dalla norma giuridica, prevede al suo interno la presenza costante dell’eccezione e della trasformazione della norma. Poiché nella società coesistono normazioni diverse, diviene assai complicato contrapporre la norma all’eccezione, la normalità all’emergenza, secondo un modello oggi sempre più presente con il declino della sovranità classica.
Bisogna però aggiungere che non sempre l’opinione può esprimere quella sintesi «obliqua» che Hume immagina possa confermare l’ordine della società. Non sempre essa giunge a esercitare quella che Cobbe con una espressione assai felice definisce «sovranità informale». Dalle condotte societarie rischiano sempre di emergere riferimenti normativi, abitudini, immaginazioni che, con maggior o minor successo, stabiliscono un contrasto insanabile con il governo stesso dell’opinione. Non a caso la dottrina di Hume è sospesa tra le rivoluzioni, quelle inglesi del Seicento e quelle atlantiche della fine del secolo successivo e, mentre registra il mobile ordine societario che le prime hanno stabilito, essa viene ampiamente utilizzata per produrre quelle che verranno. Nonostante il quieto conservatorismo del suo autore, nella dottrina di Hume affiora costantemente un’inconsapevole ma sottile carica eversiva.

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