Cultura

David “Chim” Seymour, la lente dell’empatia per leggere la Storia

David “Chim” Seymour, la lente dell’empatia per leggere la StoriaVenezia, Italia, 1950 – © David Seymour-Magnum Photos

Mostre Gli scatti dal 1936 al ’56 del fotografo polacco, fra i fondatori dell'agenzia Magnum, presso Palazzo Grimani a Venezia

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 9 gennaio 2024

Quella foto in cui David Seymour è sdraiato sul letto della sua stanza all’Hotel Inghilterra, a Roma, con la giacca, la cravatta di seta nera e la sigaretta tra le labbra mentre parla al telefono è il ricordo di un momento intimo. L’autore è René Burri.

IN QUELLO STESSO ANNO – il 1956 – Seymour è insieme alla prima moglie di Elliott Erwitt (è lui ad aver scattato la foto in un caffè parigino) con la loro figlia Ellen e il piccolo Misha in braccio che gli pizzica il naso. La grande famiglia dell’agenzia Magnum di cui il fotoreporter nato a Varsavia nel 1911 (il vero nome era David Szymin da cui l’abbreviazione Chim, pseudonimo che aveva adottato) era stato fondatore nel ’47 insieme agli amici Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e William Vandivert (nonché presidente per due anni dopo la morte di Capa) rappresentava anche la sua famiglia allargata. A sottolinearlo è Andréa Holzherr, responsabile delle mostre di Magnum Photos, in occasione dell’antologica David “Chim” Seymour. Il Mondo e Venezia 1936-56, curata da Marco Minuz al Museo di Palazzo Grimani a Venezia (fino al 17 marzo 2024) – promossa dalla Direzione regionale Musei Veneto con la collaborazione di Suazes e il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia – a circa dieci anni di distanza da quella di Palazzo Reale a Torino.
Holzherr descrive Chim come un uomo timido che non aveva moglie né figli, la cui casa era la valigia che aveva con sé in giro per il mondo, pragmatico e sempre pronto a risolvere i problemi altrui ma anche chiuso nel dolore immane della tragedia dell’olocausto che lo aveva toccato in prima persona, con la morte dei genitori nel ghetto di Varsavia e di tanti altri familiari e amici. Storie che si ripetono nel tempo, ribaltando i ruoli di vittime/carnefici.
A piangere la sua scomparsa – fu colpito insieme al fotoreporter francese Jean Roy da una mitragliatrice egiziana (secondo altre fonti inglese) a Port Said, il 10 novembre 1956, durante la crisi del Canale di Suez – c’è la sorella Halina (Eileen) che come lui aveva lasciato Varsavia negli anni ’30 per trasferirsi a Parigi e da lì con il marito Samuel Leib Shneiderman negli Stati Uniti. Molta della corrispondenza di Chim conservata negli archivi Magnum è indirizzata proprio a lei. Oggi i referenti dell’Eredità Seymour sono i nipoti Ben Shneiderman e Helen Sarid, donatori tra l’altro alla Library of Congress di Washington di oltre 800 stampe che coprono l’intera carriera dello zio.

Parigi, 1938 – David (Chim) Seymour saluta Henri Cartier-Bresson © David Seymour-Magnum Photos

NELLA MOSTRA Il Mondo e Venezia 1936-56 tra le immagini delle nove sezioni, inclusa la parentesi della «valigia messicana» con riproduzioni dei provini realizzati dal fotografo durante la guerra civile spagnola (tra il 1935 e il ’39 fu corrispondente per la Spagna della rivista di sinistra Regards di cui sono esposti alcuni numeri originali) e che oggi, insieme a quelli di Capa e Gerda Taro, fanno parte delle collezioni dell’Icp di New York, c’è anche la donna in primo piano che guarda verso l’alto a Estremadura. Come si legge nel website di Magnum: «Qui, una donna allatta un bambino durante un incontro sulla riforma agraria vicino a Badajoz nel 1936».
Di particolare interesse per Chim era il ruolo delle donne nello sforzo bellico; le ha fotografate come indipendenti e forti, in grado di sostenere la guerra». Il negativo originale, dato per perduto e ritrovato proprio nella «valigia messicana», mostra come l’immagine fosse stata tagliata in fase di stampa per creare una maggiore tensione emotiva verso il soggetto.
Nel negativo la figura femminile non è in primo piano ma circondata dalla folla di manifestanti: la forza è data proprio dalla coralità. Trova conferma, ancora una volta, quello sguardo empatico dell’autore nel farsi portavoce di storie spesso drammatiche, come quella degli orfani di guerra (1948) che gli commissionò l’Unicef.
Non mancano, tra i ritratti, anche le star del cinema, tra loro Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Ingrid Bergman, spesso fotografate a Roma dove l’industria di Cinecittà era quanto mai fiorente. Alla capitale italiana Chim era particolarmente affezionato: l’amico Carlo Levi è ritratto fuori dallo storico ristorante Il Re degli Amici in via della Croce. Del resto, come ricordava Cartier-Bresson, «una delle pedine tenute di riserva era la sua raffinatezza culinaria, di cui dava sfoggio con cortese autorità, ordinando sempre buoni vini e piatti elaborati».

UNA QUESTIONE che stava a cuore a Chim era, poi, la nascita dello stato di Israele che, come per altri sopravvissuti, rappresentava la speranza per il futuro. Un entusiasmo a senso unico che si ritrova in diversi servizi fotografici, a partire dal 1951 quando documenta l’insediamento italiano di Alma con gli ebrei arrivati da Tripoli (Libia) e la comunità contadina di San Nicantro Garganico, in parte fotografata anche in Puglia, nel 1960, da Lisetta Carmi al suo esordio come fotografa.
Ma torniamo a Venezia, protagonista in diversi scatti in cui la sua curiosità è declinata in una chiave d’interesse tra l’antropologico e l’umanista. C’è anche un fotogenico piccione immortalato in piazza San Marco e la «dogaressa» Peggy Guggenheim, nel ’50, all’esterno di Palazzo Venier dei Leoni con affaccio su Canal Grande con gli occhiali stravaganti e tre dei suoi cani «barbuti» Lhasa Apso. Una foto così iconica da aver ispirato, in tempi recenti, anche un’opera di Lediesis, due street artist fiorentine famose per le loro immagini di «Superwomen», eroine forti e consapevoli.

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