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David Cage alla ricerca dell’umanità perduta

David Cage alla ricerca dell’umanità perdutaDavid Cage al centro

Games Intervista al regista di "Detroit: Become Human" e fondatore di Quantic Dreams

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 7 luglio 2018

David Cage, vero nome David de Gruttola, è l’autore francese di Detroit Become Human e fondatore di Quantic Dreams, con la quale ha già realizzato Heavy Rain e Beyond. Prima di questi ha creato il fantascientifico Omikron The Nomad Souls, che ha trasformato in immagine virtuale David Bowie, e Faherenheit, videogame che prelude al suo rivoluzionario e geniale futuro creativo, musicato da Angelo Badalamenti. Abbiamo incontrato David Cage a Roma negli uffici di Sony, dove ha risposto ad alcune nostre domande.

Perche ha scelto di trattare il tema degli androidi nel suo nuovo videogame?

Non l’ho propriamente scelto, perché è questo tema che ha scelto me. Nel 2012 realizzai un corto intitolato Kara, dove si vede un’androide venire costruita di fronte a noi e comprendiamo che ella prova delle emozioni. Alla fine del corto non sappiamo che cosa le succederà, ma milioni di persone lo hanno visto, amato e si sono commossi per la sua storia. Così ho voluto immaginare cosa sarebbe successo a Kara una volta fuori dalla fabbrica, come avrebbe potuto essere la sua vita nel mondo e così che Detroit è davvero cominciato.

Gli androidi di Detroit sono più simili a quelli raccontati da Asimov o a quelli di Dick?

Io credo che possano essere più simili, sebbene questi siano dei replicanti, a quelli di Dick. Io ho voluto che queste macchine si muovessero, pensassero e agissero come veri esseri umani perché sono ideati per essere accettati come uno di noi: vivono nelle nostre case, lavorano nei nostri uffici, insegnano nelle scuole. Quindi chi li ha progettati ha fatto un grande sforzo per renderli il più possibile simili all’essere umano. Simulano la respirazione, sbattono le palpebre, gesti non necessari agli androidi se non per renderli accettabili a chi li osserva.

Giudica Detroit un gioco di fantascienza o una storia a proposito del futuro imminente?

Non credo sia propriamente fantascientifico, non ci sono macchine volanti o cose del genere, volevo illustrare un mondo al quale la gente potesse immediatamente connettersi, quindi ambientare la storia fra venti anni penso che sia stata decisione giusta, perché si tratta ancora di un mondo vicino al nostro, con regole simili, e il pubblico ci si può rapportare. Ci sono tuttavia delle drastiche ma credibili innovazioni tecnologiche, molto probabili. Si tratta quindi di una narrativa d’anticipazione.

Nei suoi videogame ci sono sempre degli interessanti riferimenti al cinema, ci sono registi o film che l’hanno ispirata per Detroit?

Questa volta non consciemente, ma sono sicuro che chi gioca vedrà corrispondenze con questo o quel film. Io amo molto il cinema di Kubrick, Cassavetes o Scorsese, ma spero infine che non ci siano troppe connessioni con il loro cinema, perché amo ribadire la mia originalità.

E’ possibile che in un’epoca durante la quale l’essere umano sembra sul punto di smarrire la sua indole più nobile e altruistica, perdendo l’obiettivo comune per un egoismo smisurato, saranno gli androidi a ristabilire il vero significato di umanità?

Questo è il tema del gioco. E’ vero che Detroit descrive l’umanità come una specie decadente, perché sta diventando troppo dipendente dalla tecnologia, così egocentrica e egoista da preferire di vivere con una macchina invece che con un altro essere umano, perché così ci vorrebbero sforzi, empatia, compromessi. Quindi l’umanità ritiene migliore la compagnia degli androidi, programmati per obbedire agli ordini. E’ una visione molto pessimistica del futuro dell’umanità, ma non impossibile, guardando al presente, perché osserviamo queste tendenze egoistiche, anche di rabbia e odio, che si stanno sviluppando, crescendo, e io immagino che diventi sempre peggio. Invece questa nuova specie, gli androidi, che noi abbiamo creato, sta diventando sempre più intelligente, cosciente e sensibile, ed esige da noi di essere riconosciuta per quello che è: una nuova forma di vita.

I suoi videogame sono molto cupi, tuttavia in Beyond lei si è rivelato un notevole autore di commedia, ad esempio nel segmento della cena che è un triangolo amoroso con fantasma. Ci sono anche in Detroit momenti come quello?

Ammetto che Detroit è molto oscuro, ma quando tutto è così nero non è possibile vedere il contrasto. Quindi sì, ci sono momenti più leggeri, soprattutto tra Connor e Hank.

La musica nei suoi videogiochi è fondamentale e lei ha lavorato con compositori come Badalamenti e Corbeil. Ci dice qualcosa sulla musica di Detroit?

Abbiamo fatto questa scelta radicale e nuova, ovvero di non avere solo un compositore ma tre, uno per ogni personaggio principale. Ognuno dei tre protagonisti ha il suo mondo sonoro e i tre straordinari musicisti ( Philip Sheppard per Kara, Nima Fakhrara per Connor, John Paesano per Markus)hanno uno stile molto personale, ma sono riusciti a fonderlo insieme, quando ci sono momenti durante i quali le storie dei personaggi si uniscono. Per la musica della colonna sonora, che varia anche in base alle scelte del giocatore, sono stati inoltre addirittura inventati nuovi strumenti, quindi nuovi suoni.

Perché Detroit e non Los Angeles, New York o Chicago?

ci sono due motivi, il primo è che sono sempre stato affascinato dalla storia di Detroit, perché era quella di un gigante industriale, enorme e in salute, dopodiché ha trascorso un periodo molto duro e sta difficilmente cercando di rinascere dalle sue ceneri. Inoltre Detroit è una città che ha importanti connessioni con la storia dei diritti civili, c’era Martin Luther King, sono successi fatti fondamentali per la cultura dell’uguaglianza. Ci siamo stati molte volte durante la lavorazione del gioco, abbiamo parlato con i suoi abitanti, camminato a lungo per le sue strade e ci siamo convinti che il nostro videogame avrebbe dovuto proprio svolgersi a Detroit, perché era il luogo più significativo per raccontare la storia che avevamo in mente.

Come è cominciato il suo rapporto con il cinema?

Devo andare molto indietro nel tempo, il primo film che ricordo è una pellicola in bianco e nero, La Bella e la Bestia, di Jean Cocteau. Avevo quattro o cinque anni, e mi ricordi che fui terrorizzato dalla visione, soprattutto dalla Bestia. E’ il mio primo contatto in assoluto con il cinema ed è la prima volta che ne parlo! Tuttavia poi la mia cultura si formata in maniera assai simile a quella di molti ragazzi della mia generazione, ho visto i film di Spileberg, letto i romanzi di Stephen King, mi innamorai di Hitchcock e Welles quando conobbi le loro opere. Amo soprattutto il cinema degli anni ’70, considero Apocalypse Now uno dei miei film preferiti in assoluto.

E il suo primo videogioco?

E’ stato Pong.

Una nuova parola per “videogioco”?

Non apprezzo molto il termine “videogioco”, perché è obsoleto e non riesce più a descrivere con efficacia ciò a cui si riferisce. Tendo sempre a parlare di “esperienze interattive”, anche se è molto lungo e neanche tanto bello, ma è più preciso. Prima o poi conieremo un termine più efficace e ispirato.

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