Daud Khan Sadozai, suoni del Paradiso
Culture Incontro con il più famoso suonatore afghano di Rubab
Culture Incontro con il più famoso suonatore afghano di Rubab
«Per i Talebani la musica è contraria all’Islam? Rispondo con il maulana Rumi Balkhi. In una poesia scrive che nel rubab si riconosce il suono delle porte del Paradiso. E a chi obiettava che quel suono era insignificante, rispondeva: Io sento l’apertura delle porte del Paradiso, tu la chiusura delle porte del tuo cuore». Si affida al rubab e a Jalaluddin Rumi, poeta e mistico sufi del tredicesimo secolo, nato nell’attuale Afghanistan del nord, per replicare indirettamente alle autorità di fatto del Paese in cui è nato e che ha lasciato nel 1979. Membro di una famiglia nobile legata al re Zair Shah, negli anni Settanta del secolo scorso è un ragazzo a cui piace curiosare nei negozi del quartiere dei musicisti di Kabul. «Sin da bambino ho avuto un attaccamento speciale alla musica. Mia madre la amava, così come mio padre, mentre mio nonno, tra gli ultimi principi afghani, invitava sempre in casa grandi maestri nei fine settimana. Ogni volta che suono mi sembra di essere lì».
La musica lo affascina, ma non sospetta di diventare uno dei più celebri e apprezzati musicisti afghani, tanto da approdare alla Philharmonie di Parigi, alla Barbican Hall di Londra, all’Alte Oper di Francoforte e da guadagnarsi nel 2022 uno dei prestigiosi Aga Khan Music Awards. Daud Khan Sadozai è infatti il più famoso suonatore afghano di rubab, lo strumento a corde che unisce maestri e discepoli dell’Afghanistan, del subcontinente indiano e di buona parte dell’Asia centrale. Il rapporto con il rubab, ci spiega ustad (maestro), «è personale e si rafforza ogni giorno. La mia famiglia ne è perfino gelosa, perché è parte di me. Ho finito per amarlo come un figlio, come un ottimo amico». Di cui non può fare a meno.
Barba bianca corta e ben curata, un salwar kamiz spezzato, celeste sopra e bianco sotto, sandali ai piedi, modi spontanei e composti, Sadozai porta con sé il rubab anche qui, nel castello ducale di Sessa Aurunca. La località campana dove è ospite e protagonista della prima edizione della Summer School sull’Afghanistan ideata dalle docenti Anna Filigenzi e Roberta Giunta, organizzata dall’Università di Napoli L’Orientale con l’associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente (Ismeo), l’Institut national des langues et civilisations orientales di Parigi (Inalco) e la Fondazione Pietà de’ Turchini. Accompagnato dai musicisti italiani Giovanni D’Ancicco e Renata Frana e dal musicologo Salvatore Morra, che ricorda l’importante lavoro di ricerca sui musicisti afghani della diaspora condotto dallo studioso John Baily e raccolto in un ricchissimo archivio e nel libro War, Exile and the Music of Afghanistan (Routledge 2015), Sadozai ricostruisce per le lettrici e i lettori di Alias la lunga strada percorsa. Contrassegnata dalla relazione speciale tra ustad e shagherd, maestro e discepolo.
Il suo primo vero maestro è stato ustad Mohammad Omar, il ‘sultano del rubab’, conosciuto per lo stile unico con cui interpretava, da solista, il repertorio classico e le melodie popolari afghane. All’epoca, racconta Daud Khan Sadozai, «cercavo di esercitarmi nei negozi di Kabul. Se mio padre entrava, smettevo per rispetto. Quando ha capito il mio interesse mi ha detto: «Se suoni così perdi tempo, serve un maestro». Ci siamo rivolti a un costruttore di strumenti e suonatore di tamburo. In seguito bussammo alla porta di ustad Mohammad Omar: ’Cosa fate lì? Venite dentro’».
Da lui Sadozai impara uno stile, preciso ma intraducibile a parole – «le note sono quelle, dipende cosa ne fai» – e la consapevolezza che suonare il rubab è come pregare, instaurando una connessione con Dio: «l’adhan, l’invito alla preghiera dell’Islam, è una melodia. Anche la lettura del Corano dovrebbe essere fatta con qirat, recitando una melodia». Recita anche lui: Allah Akbar… Poi prosegue. «Facciamo musica anche quando parliamo con qualcuno, adottando sempre un certo stile. E gli stessi strumenti musicali sono creati dalla natura: il plettro, le tabla, riprendono il canto degli uccelli al primo mattino».
Natura e storia, però, confliggono. Con il colpo di Stato del 1978 e l’occupazione dei soldati sovietici l’anno successivo, per l’Afghanistan comincia un lungo periodo di instabilità, non ancora concluso. «Nel 1979 mio padre sentiva che le cose si stavano mettendo male». Sadozai va in Germania a studiare ingegneria. «Ma la vita era dura lì. Mio padre aveva insistito affinché portassi con me il mio strumento. «Prendilo, sarà il tuo miglior amico». Dopo due anni la guerra è cominciata davvero. Mi ha impedito di tornare, ma nel frattempo a casa nostra ospitammo proprio ustad Muhammad Omar. Mio padre divenne suo allievo. E ustad gli lasciò diverse notazioni, registrazioni e il suo plettro, che poi mio padre mi consegnò in Germania. Una vera benedizione».
La Germania va stretta al giovane musicista afghano. Imparare e praticare l’arte in un Paese in cui si usa «un diverso linguaggio musicale, è difficile», spiega ustad Sadozai. Che fa un esempio: «A Colonia abbiamo alberi da frutto portati dall’Afghanistan, ma è come se fossero malati. Il frutto è diverso. Lo stesso vale per gli esseri umani. Lo stile di vita, il pubblico e le sue aspettative, la musica stessa sono differenti». L’India, invece, è parte della stessa matrice. Così, va in India a imparare un altro strumento a corde, il sarod. «Ho avuto la fortuna di essere accettato come allievo da ustad Amjad Ali Khan, che aveva uno stile molto personale e lontane discendenze afghane». Per Sadozai la musica indiana è un grande oceano, quella afghana un affluente, peculiare, dentro la medesima cornice culturale. «In Afghanistan ci sono stati grandi maestri, ma la guerra ha compromesso la continuità: tutte le grandi potenze hanno attraversato il Paese per andare in India, portando distruzione». Per questo la musica afghana «è come un fiore, bello ma piccolo, non sviluppato. Nell’India del nord, invece, la musica si è sviluppata grazie alla commistione di filoni arabi, turchi, persiani, etc., che ha portato alla creazione di molti strumenti. Se si studia questo tipo di musica, bisogna andare in India».
Sadozai risiede in Germania. Nel grande Paese asiatico torna appena può. Non ha invece più messo piede in Afghanistan: «Sono fuori da 45 anni. La situazione è drammatica. La gente non ha soldi per il pane. Continui cambiamenti di bandiere, governi, leggi. Ciò rende la società malata». E impossibile godere della musica, soprattutto quella «tradizionale, che non fornisce gratificazione immediata: servono pace e tranquillità dentro di sé, mente chiusa e cuore aperto». Al tempo dei Talebani, la cui mentalità censoria nega, oltre a ogni diritto delle donne, una tradizione culturale meticcia, non è più possibile: «una volta si andava a fare i picnic, con gli strumenti musicali, cucinando, stando insieme. Oggi tutto ciò che rende felice il popolo è proibito. La musica è completamente finita». Sadozai dice di essere cresciuto «in un periodo fortunato, quando Kabul era ancora una piccola città, regnava il re, c’era un’atmosfera rilassata e si poteva viaggiare nel Paese. Poi sono successe tante cose. Inclusa la presenza degli Stati Uniti e della Nato, i bombardamenti, la guerra, l’impossibilità di viaggiare». È in contatto con artigiani e e musicisti del settore, coloro ai quali i Talebani, vietando la musica, hanno tolto lavoro e felicità. Artista della diaspora, ha preservato e ridato vita a una tradizione minacciata. Vorrebbe fare di più, ma non riesce a essere ottimista. «È tutto molto triste. L’Afghanistan è sempre stato aperto alla buona cultura, alla musica tradizionale, al sufismo. Oggi siamo in un periodo pericoloso. L’attuale generazione rischia di conoscere solo il kalashnikov e l’idea che, se non hai le mie stesse convinzioni, sei un nemico da uccidere, un miscredente». Esclude di rientrare nel Paese. «Andare lì senza poter suonare è impensabile. Se non mi esercito per un giorno o due, mi ammalo. Per me la musica è una medicina, è il cibo. È tutto».
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