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Datagate e sovranità digitale

Datagate e sovranità digitale – Reuters

Big Data La guerra informatica non è finita e si gioca su un concetto sempre più rilevante: mettere i confini all'internet

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 25 novembre 2013

I confini tra Cina e Usa, a livello economico, finanziario e diplomatico sono fin troppo noti, ma quello che si sta giocando sulle reti e l’internet e sul concetto di sovranità digitale è ancora tutto da scrivere. Come testimonia la recente decisione cinese di dotarsi di un Consiglio di Sicurezza Nazionale: molto simile a quello americano e che sembra voler evitare la possibilità, tra le altre cose, di uno Snowden cinese.

Nsa, confine incerto
Un generale che abbandona, una protesta contro il controllo e la richiesta di applicare il buonsenso nei confronti degli alleati: l’America discute da tempo e si interroga sul peso ormai mondiale dello scandalo Datagate, tra richieste di riforma, tentativi di rassicurazione e iniziative popolari. Il «cowboy della Nsa», ovvero il Generale Keith Alexander, ha annunciato la fine del proprio impero sui sistemi di sicurezza più imponenti al mondo: dal marzo del 2014 lascerà l’incarico di direttore. L’ha comunicato da militare, senza particolare animosità, anche se a detta dei suoi più vicini collaboratori sarebbe inviperito a causa della scarsa protezione che gli avrebbe garantito la Casa Bianca, a seguito dello scoppio dello scandalo Datagate. La sua dipartita – e la sua sostituzione che rappresenterà uno dei punti attraverso i quali leggere l’eventuale riforma della Nsa da parte di Obama – potrebbe essere il primo regalo che l’amministrazione Usa cerca di dare al resto del mondo, almeno come segnale. Francia e Germania, a seguito delle ultime rivelazioni, si sono mostrate stupite prima e innervosite poi. Un editoriale del New York Times, ha infatti richiesto a Obama di applicare, al più presto, il buonsenso per non peggiorare la situazione con quelli che rimangono «alleati»; ovvero cominciare a dimostrare che gli Usa cambieranno qualcosa.

Il generale Alexander è colui che ha piegato la Nsa ai suoi voleri e alla sua fame di dati. Stando a quanto affermato da un suo ex sottoposto, Alexander aveva la stessa mira di Google: «dati, tanti, subito, in tempo reale», a testimoniare come nell’epoca della sorveglianza globale, sia coatta contro il terrorismo, sia volontaria per il marketing, apparati di sicurezza e multinazionali siano sempre più simili nel proprio agire.

E proprio questa preponderanza militare nell’uso dei dati, che ha di fatto stracciato le competenze della Cia, costituisce il trait d’union dell’ondata di leaks che negli ultimi anni hanno investito le amministrazioni americane. Da Wikileaks a Snowden, infatti, la trama contraria ai segreti di stato e alla raccolta indiscriminata di dati e favorevole invece alla loro pubblicazione (con un rigoroso controllo delle fonti e delle opportunità, come dimostra il tempo passato tra l’arrivo dei dati della Nsa e la loro prima parziale pubblicazione) è netta. Quando Edward Snowden ha registrato il video nel quale affermava di essere ad Hong Kong e di essere lui la fonte di tutto lo scandalo da poco rivelato da Guardian e Washington Post, a riprenderlo c’era Laura Poitras.

Non una videomaker qualunque, bensì quella che lo stesso Glenn Greenwald, il giornalista che ha curato i materiali, gestito mediaticamente lo scandalo e ha infine lasciato il Guardian per lanciarsi in una nuova esperienza editoriale, con i soldi del magnate di Ebay, ha definito «la Keiser Soze» (nome del personaggio principale del film «I soliti sospetti» ndr) dell’intera operazione, perché «ubiqua e invisibile allo stesso tempo». La Poitras lavora da tempo ad un documentario in varie parti proprio su Wikileaks, che non a caso, attraverso Assange, supportò fin da subito Snowden. Un asse che per i conservatori è diventato ben presto un potenziale rivelatore di segreti che possono nuocere all’attività antiterroristica (ipotesi smentita più volte dai diretti interessati e dai fatti) e che in realtà rappresenta una sorta di riproposizione dei movimenti politici che si oppongono alle guerre americane e alle politiche securitarie ad ogni costo.

E mentre venerdì 26 ottobre – il dodicesimo anniversario del Patriot Act – a Washington l’America è scesa in piazza proprio contro la paranoia da controllo, attraverso lo slogan «Stop watching us», ci si chiede che fine abbiano fatto le promesse di riforma della Nsa effettuate da Obama lo scorso agosto. Allora, il presidente Usa aveva annunciato un revamp, un miglioramento dei sistemi di gestione dei dati, che lasciava intravedere una diminuzione del ruolo e dei poteri della Nsa. A marzo 2014 se il nuovo capo della Nsa sarà un civile, anziché un militare, si potrà parlare di una prima svolta, anche se in questi giorni non sono pochi quelli che chiedono a Obama che fine abbiano fatto le promesse estive, quando lo scandalo Datagate era appena scoppiato.

La Nsa, il Datagate e la Cina

La Cina, da grande accusata per essere la responsabile dello spionaggio industriale ai danni degli Stati Uniti, diventa l’ironico castigatore delle smanie spionistiche americane, a seguito dello scandalo del Datagate. E’ il contrappasso di una vicenda che è nata proprio in zona cinese, a Hong Kong, e che ha finito per propagarsi nel resto del mondo, nascondendo la fase precedente – le accuse alla Cina – e rilanciando di fatto un’industria – quella della sicurezza – non ancora spinta al massimo al di qua della Muraglia. La portavoce del Ministero degli Esteri cinesi, Hua Chunying, durante una conferenza stampa ha annunciato che a seguito dello scandalo Datagate, «la Cina è preoccupata per le continue rivelazioni di intercettazioni e sta prestando attenzione allo sviluppo della vicenda. Prenderemo le misure necessarie per mantenere rigorosa la sicurezza delle nostre informazioni». Si tratta di un annuncio che presuppone nuovi investimenti cinesi nel settore della sicurezza, in grado di aumentare ancora di più la potenza di fuoco tecnologica di Pechino.

Grazie a Snowden e alle sue rivelazioni la Cina si prende dunque una rivincita diplomatica mondiale – dopo aver accusato gli Usa e Obama di «ipocrisia» – cui segue la scoperta di mettere in «sicurezza» i propri dati, pubblici e privati. Nel febbraio dello scorso anno un report dell’azienda americana Mandiant, accusava apertamente la Cina di spionaggio industriale – e non solo – ai danni degli Stati Uniti. La questione fu considerata talmente rilevante che il documento venne presentato al Congresso e sulla stampa americana apparvero anche le foto degli uffici, a Shanghai, dove si sarebbero annidati gli hacker cinesi, arruolati direttamente dall’Esercito di liberazione. La questione della sicurezza informatica e il sospetto che molti degli attacchi subiti da organizzazioni e aziende americane arrivassero dalla Cina, era il punto più forte delle rivendicazioni americane nei confronti di Pechino.

Se la Cina poteva fare la voce grossa per i rapporti economici e commerciali in atto con Washington, Obama giocava la carta «sicurezza» come quella determinante nel riportare Pechino al suo posto, ovvero in posizione subordinata al peso americano nel mondo. Con queste speranze Obama ha invitato Xi Jinping in California la scorsa estate. Neanche tempo di mostrarsi in maniche di camicia sui verdi prati californiani che l’ex agente Nsa Snowden rilasciava quello che sembra essere un fluire di informazioni senza fine. E a finire dalla parte degli spioni toccò a Wasghington. Per di più Snowden si era rifugiato a Hong Kong, proprio nella bocca del lupo.

La Cina da paese che esercita censura e attacchi informatici, diventava il piedistallo della libertà che consentiva a Snowden di rivelare i segreti della più grande operazione di spionaggio della storia. Nei giorni scorsi ulle pagine del China Daily, Shi Yinhong, un esperto di studi americani della Renmin University of China, specificava che «percependo se stessi come una superpotenza, gli Stati Uniti mantengono l’atteggiamento arrogante secondo il quale non è un grosso problema quello di rubare le informazioni di altri paesi». La Cina naturalmente non si diverte solo a stuzzicare gli alleati-rivali americani, ma ha un duplice obiettivo.

La sovranità digitale
In primo luogo lo scandalo Datagate rafforza le proprie convinzioni circa il concetto di «sovranità digitale» con cui Pechino rimanda al mittente ogni critica nei proprio sistemi di controllo interni e attraverso il quale si rivendica un ruolo internazionale «propositivo», come ha sottolineato la portavoce del ministero degli esteri, «Cina e la Russia hanno presentato una bozza di piano, in uno sforzo per aiutare il mondo ad affrontare congiuntamente il problema». In secondo piano c’è l’ambito più rilevante, quello relativo allo sviluppo e all’aumento dei propri sistemi di sicurezza. «Quelli che operano in questo settore, devono ringraziare Snowden», ha detto Yuan Shengang, amministratore delegato della Netent Sec. – una software house cinese – alla Conferenza sulla sicurezza informatica svoltasi a Pechino alla fine di settembre.

La differenza tra gli investimenti cinesi (che sarebbe dovuto essere il grande controllore dei dati mondiali secondo le accuse di Washington) e quelli americani sono clamorosi: il governo degli Stati Uniti – secondo i dati della Conferenza – avrebbe speso 6,5 miliardi dollari per la sicurezza, la Cina solo 400 milioni. Il settore privato americano avrebbe investito 4,3 miliardi dollari su una vasta gamma di prodotti per la sicurezza informatica, a fronte dei soli 80 milioni delle aziende cinesi.

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