Dario Gambarin, magia dell’effimero
Intervista L'artista e pittore racconta il suo lavoro e la sua concezione di Land Art
Intervista L'artista e pittore racconta il suo lavoro e la sua concezione di Land Art
La campagna come cornice, la terra come tela, un trattore e un aratro come pennello. Questa è la bottega d’arte di Dario Gambarin, tra i massimi esponenti italiani della Land Art, nata alla fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti, che utilizza il territorio come luogo per l’espressione artistica.
Nei campi di famiglia situati a Castagnaro, nell’estremo sud della provincia di Verona, al confine con quella di Rovigo, ha realizzato una settantina di opere raffiguranti personaggi quali Greta, Fidel Castro, Obama, Biden, Beethoven, Mandela, Papa Francesco, Martin Luther King, John Kennedy, Leonardo da Vinci, ma anche eventi: i 700 anni dalla morte di Dante, i 200 anni dalla nascita di Dostoevskij, il Coronavirus, la guerra, la siccità.
Gambarin, 63 anni, veronese di nascita ma bolognese di adozione, è dal 2004 che si dedica alla Land Art, prima ha avuto esperienze di lavoro come avvocato, poi come ricercatore negli Stati Uniti all’University of California di Los Angeles, si è poi laureato in lettere e filosofia e all’Accademia delle Belle Arti di Bologna. Dal 1993 come pittore ha realizzato esposizioni a livello internazionale a Zurigo, Los Angeles, Berlino, Istanbul tanto per citarne alcune.
Gambarin, che cos’è per lei la Land Art?
Molti artisti che lavorano sul territorio eseguono degli interventi strutturali nel senso che una volta terminata l’opera questa rimane lì per sempre cambiando, in un certo senso, il paesaggio. Ne è un esempio la spirale di Jetty nel lago dello Utah dove l’artista ha utilizzato dei sassi che appaiono e scompaiono a seconda dell’altezza delle acque.
Altri pittori, come in Germania, da cui io ho preso spunto, eseguono un disegno su un foglio che poi trasportano sul terreno con dei solchi dove seminano dei fiori aspettandone la fioritura per vederne il risultato che verrà fotografato per realizzare dei poster, in numero limitato, da vendere.
In entrambi i casi l’opera occupa un terreno o una superficie per diverso tempo. Io, invece, non sfrutto il terreno a discapito di una coltivazione, ma l’opera che vado a fare ha una durata di un paio di giorni. La eseguo dopo un raccolto e prima di una semina. E non ne ricavo denaro.
Quindi l’attività agricola ha sempre la precedenza sull’opera…
Certo. Il terreno, specie se è agricolo, non va sprecato. Faccio un esempio. D’estate dopo la trebbiatura del grano rimangono sul campo le stoppie, gialle, che diventano la mia tela dove dipingere. Io devo realizzare il dipinto nel giro di poco tempo: un giorno o due. Subito dopo si deve seminare la soia. Una volta, addirittura, ho iniziato il lavoro alla sera e alla mattina l’opera era già terminata. Qualche ora dopo sono arrivati i contoterzisti che hanno arato il terreno ed entro sera il campo era già seminato.
L’opera quindi dura pochissimo tempo?
Possiamo dire quasi niente. Una volta che inizio il lavoro lo devo anche finire perché il sole brucia la terra rendendo invisibile l’opera. Quando ari, la terra che viene in superficie è nera, ma dopo qualche ora cambia colore».
Quanto spazio le serve?
Dai ventimila ai sessantamila metri quadrati.
Facciamo un passo indietro. Come nasce un’opera?
Prima di tutto due precisazioni. Per prima cosa nell’eseguire il lavoro non si deve assolutamente sbagliare nel lavorare la terra perché se ciò capitasse non si potrebbe correggere chiudendo il solco perché il segno nero rimarrebbe.
La seconda è che non uso nulla per orientarmi nel campo. Quello che faccio è tutto, come si dice, «a mano libera». Io parto da un’idea che voglio rappresentare sul terreno e la disegno su un foglio più volte sino a trovare quella che mi piace. Studio tutti i particolari del lavoro, come per esempio quali rischi ci sono nel fare alcune cose invece di altre. Vado poi a vedere il campo per verificarne la fattibilità.
A questo punto entrano in campo il trattore e l’aratro…
Esatto. In genere il lavoro dura 5-6 ore senza l’aiuto di nessuno. Tenga presente che io non vedo lo svilupparsi dell’immagine, ma solo terra. Sono come un pittore cieco. Uso solo l’immaginazione vedendomi dall’alto. Le mie sono delle performances, perché non mi posso fermare e ogni volta che le eseguo perdo quasi due chili. Nel realizzare le opere devo anche tenere conto che l’aratro è nato e si usa per andare diritto e non per fare delle curve e per questo ne ho già rotti due. Inoltre, bisogna saper manovrare il trattore in un certo modo facendogli fare delle curvature particolari. La mia Land Art è un mix di fatica fisica e mentale.
Terminato il lavoro come rende visibile la sua opera che dura un tempo molto limitato?
Fino a qualche anno fa facevo scattare una foto da un piccolo aereo, un Cessna. Adesso la riprendo da un drone. Fatta la foto e le riprese occorre chiudere i solchi e arare il terreno per la coltivazione che seguirà.
Come sceglie i personaggi da realizzare?
Dall’attualità, ma anche dal momento particolare. La prima opera, realizzata diciassette anni fa, raffigurava il volto di una donna. Mio padre mi prese per matto e ricordo ancora che mi disse «che gli avevo rovinato la terra e poi chissà cosa penserà la gente di tutte queste buche». Da allora ho realizzato una settantina di opere affiancando ai volti di personaggi famosi anche dei messaggi particolari. Nel proporre il volto di un personaggio la difficoltà è di rappresentarlo il più verosimilmente possibile. Tenga presente che non vedo quello che sto disegnando sul campo con il trattore e l’aratro e che non ho la gomma per cancellare un solco sbagliato.
Nel settembre scorso la televisione russa l’ha voluta come testimonial nelle celebrazioni del grande romanziere Fëdor Dostoevskij…
A ottobre ho realizzato un omaggio a Dostoevskij per i duecento anni dalla sua nascita. Al suo volto ho aggiunto una scritta in inglese «Beauty will save us», la bellezza ci salverà. Di questo se ne è accorta la televisione russa, Russia Today, che mi ha intervistato e mi ha voluto come testimonial.
Le sue ultime opere?
A marzo di quest’anno, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ho creato un’opera dal titolo «No war, green pax». Per realizzarla mi sono ispirato al film di Stanley Kubrick Arancia Meccanica, a cinquant’anni dall’uscita della pellicola in Italia, e al suo interprete Alex DeLarge. Questo per dire che occorre fare attenzione a giocare con la violenza perché porta altra violenza. Un monito contro ogni guerra e ogni prevaricazione e costrizione dell’essere umano. Mentre proprio all’inizio di questo mese ho realizzato due opere, una di seguito all’altra, su due terreni diversi dal titolo «Save water» (Salviamo l’acqua) ovvero «L’urlo del mais». Nella prima di 24 mila metri quadrati una goccia d’acqua avvolge il mondo su delle stoppie di grano trebbiato.
Nella seconda di 27 mila metri quadrati si vede un campo di mais essiccato per la mancanza d’acqua con la scritta «Water». Entrambe non sono altro che un’amara rappresentazione della situazione che l’Italia sta vivendo: la siccità. Per compiere queste due opere, sempre con trattore, aratro ed erpice rotante, ho impiegato sette ore.
Oltre a essere stato intervistato da giornali e televisioni italiane e di tutto il mondo, ha ricevuto dei riconoscimenti?
No, nemmeno da Castagnaro il paese dove realizzo le mie opere. E pensare che per questo comune ho disegnato, come forma di protesta, l’urlo di Munch su un terreno dove volevano costruire un inceneritore. Della foto dall’alto dell’opera ho poi fatto delle cartoline per gli abitanti del paese da inviare a Zaia, Presidente della regione Veneto, per dissuaderlo dal realizzarlo. L’inceneritore non ha mai visto la luce. Ho però ricevuto una lettera dal Vaticano, oltre a una benedizione celeste, di Papa Francesco e i ringraziamenti del Presidente Obama tramite il suo staff elettorale quando ho disegnato i loro volti.
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