Dario Fo, riflessi di Rame
Dopo la morte, unosguardo negli archivi per ritrovare testi e lavori Il 13 ottobre scorso è sembrato dire che non c’è quasi soluzione di continuità tra la vita e la morte: con la scomparsa di Dario Fo e l’assegnazione del Premio […]
Dopo la morte, unosguardo negli archivi per ritrovare testi e lavori Il 13 ottobre scorso è sembrato dire che non c’è quasi soluzione di continuità tra la vita e la morte: con la scomparsa di Dario Fo e l’assegnazione del Premio […]
Il 13 ottobre scorso è sembrato dire che non c’è quasi soluzione di continuità tra la vita e la morte: con la scomparsa di Dario Fo e l’assegnazione del Premio Nobel a Bob Dylan si è verificata una straordinaria congiuntura temporale e letteraria che si ripropone nel medesimo scandalo e levata di scudi sulla sacralità della letteratura scoppiati diciannove anni fa quando il Nobel fu assegnato a Dario Fo e si slunga, in modo commovente, alla stessa morte dell’autore di Morte accidentale di un anarchico. È comprensibile che si stia prendendo emotivamente alla larga un giorno che segnerà, come i «venerdì di Petrarca», i confini sempre più labili che separano la quotidianità dall’affabulazione.
Insomma, muore Dario Fo nel giorno del Nobel alla letteratura dato a Bob Dylan, ed è quasi un passaggio di consegne da giullare a menestrello. Fermi: di Dylan si sta ancora appesi ad un telefono e alla cronaca; mentre l’interesse su Dario Fo, dopo i funerali laici milanesi di Piazza Duomo, sta scemando in vuoto abnorme che invero coglie in queste settimane e ancor più nelle prossime la maggior parte degli italiani, spiazzati da un’attualità che ormai s’insinua in modo sempre più crescente negli imbuti delle esistenze e della quotidianità. Dunque, a poco sono servite le paginate sui maggiori quotidiani, il disequilibrio, da cui le «grida» del figlio Jacopo, con cui è stata trattata la sua figura di artista militante e civile e di uomo pieno di contraddizioni (e ciò non accadrebbe se non si leggesse in modo sommario la biografia); infatti, ci vorrebbe giusto più di una rapida cronologia per conoscere veramente l’opera di Dario Fo.
A molto, forse, servirebbe compulsare la miriade di documenti digitalizzati e raccolti nell’Archivio Rame-Fo (www.archiviofrancarame.it), una delle ultime imprese di Franca Rame, per chi scrive e in disaccordo con qualcuno, il motore propulsivo e complementare della creatività di Fo, colei che, compagna di vita e di arte, ha saputo «curare» le commedie, i libri, le conferenze, gli spettacoli del marito, dando a lui esclusivo artista l’imprinting familiare dei commedianti Rame. In ciò il suo lavoro è stato molto simile a quello di Yoko Ono, che seppe fornire a John Lennon e alla sua genialità chiavi intellettuali e artistiche altrimenti per lui irraggiungibili.
Detto questo: gli inizi come i successi e gli anni della censura e poi del Nobel si rubricano alla fine del ‘900 e quindi ad una già costante storicizzazione; gli anni «zero» e «dieci» di Fo (e della Rame, anche dopo la sua morte) consentono ancor molti margini di aggiustamento prospettico, storico e politico e possono essere considerati dal punto di vista artistico come un tempo in cui il drammaturgo-attore porta a compimento la sua personale rivoluzione sulla forma monologico-narrativa inaugurata da Mistero Buffo.
Come non sembra un caso che il capolavoro che l’ha reso «immortale» torni a chiudere una feconda stagione – era il 2012, e un palco prestigioso come quello del Teatro Smeraldo (prima di diventare il «paradiso» di Eataly) e si mostri «a colori» al cinema per la regia in 3D di Felice Cappa, tra i collaboratori è quello che dà l’immagine alle escursioni, sempre più frequenti per Fo, in televisione e negli spettacoli e nelle conferenze multimediali che coronano la sua incessante riflessione sull’arte e sul teatro. Su tale punto di fuga si possono leggere le rivisitazioni del Decamerone e della Bibbia, nonché la sistemazione in definitive edizioni in dvd di spettacoli storici come Ruzzante o Arlecchino e il grande affresco «dugentesco» di Lu santo jullàre Franzesco.
Si diceva: la scelta della forma monologico-narrativa si presenta proprio come un tentativo di recupero di una prassi scenica popolare, nella convinzione che il monologo costituisca da sempre il mezzo teatrale più adatto ad instaurare una comunicazione diretta tra palco e platea e, quindi, il mezzo più conforme ad esprimere quella finalità didattico-politica che ormai Fo ha assegnato al proprio teatro. Il suo metodo drammaturgico si fonda su un continuo lavoro di riscrittura e aggiornamento, al punto che alcuni studiosi hanno proposto la definizione di «testo mobile». E non è stato affatto un caso che anche la breve e intensa stagione del teatro d’impegno civile si sia servita spesso di questa forma per fare luce sui «buchi neri» della storia nazionale.
Però c’è da aggiungere che il teatro civile italiano non ha raccontato, anche se lo si riconosce ed anche ad alta voce, solo: catastrofi, stragi civili e militari e industriali, emigrazione, resistenza, antifascismo. Ma, in parte ha sviluppato un filone che attraversa i valori universali della civiltà, riscoprendo anche una coscienza ecologica che dagli anni Novanta ad oggi ha conosciuto, dopo la brillantezza della fine anni Settanta e i fasti degli anni Ottanta, un costante declino.
A tal proposito, alcuni testi come L’apocalisse rimandata ovvero Benvenuta catastrofe (chi scrive partecipò alla scrittura dell’adattamento che debuttò nel 2009 al Napoli Teatro Festival), Dio è nero e in ultimo Charles Darwin. Ma siamo scimmie da parte di padre o di madre? resteranno anticipatori di un comune sentire che non è solo degli intellettuali e del mondo dello spettacolo, ma dell’intera umanità. Oltre al filone cosiddetto «scientifico» e quello, in parte nuovo, dei romanzi, scritti anche a quattro mani, volumi storici (La figlia del papa, C’è un re pazzo in Danimarca), volumi civili (Un uomo bruciato vivo. Storia di Ion Cazacu) e della riflessione ad ampio raggio certificata dai numerosi libri di conversazioni avute con la giornalista Giuseppina Manin (Il paese dei misteri buffi, Dario e Dio), s’afferma il desiderio in Dario Fo di confrontarsi con Franca Rame e innescando un felice filotto aperto da Una vita all’improvvisa (autobiografia, anche per procura, della moglie, il cui corrispettivo pubblico è In fuga dal Senato) ripesca il Manuale dell’attore minimo.
Quel libro, lontano e fortunato, non appena è suffissato da «nuovo» appare come una dichiarazione d’amore riflessa da una serie di riproduzioni di quadri che isolati in nuclei ripercorrono a tappe la loro unione: dai ritratti di Franca (da La Signora da Buttare a Coppia aperta quasi spalancata) fino alle agorà teatrali e politiche anonime che plasmano folle e illusioni (i parlamenti buffi colpiscono l’immaginazione di una volta), passando per le madonne e le crocifissioni evocate proprio dal capolavoro di Mistero Buffo. Oggi ancor più «a colori».
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