Visioni

Daria D’Antonio, «mi sono innamorata della dimensione collettiva del cinema»

Daria D’Antonio su un setDaria D’Antonio su un set

Cinema Intervista a Daria D’Antonio, direttrice della fotografia, domani riceverà il Premio Speciale Valentina Pedicini

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

«Sono molto contenta di ricevere un premio dedicato a un’autrice che ci ha lasciato opere così acute, importanti per me e per il cinema». Daria D’Antonio, Napoli, classe 1976, è stata una delle prime direttrici della fotografia in Italia. Dagli interni notturni umidi e analogici de Il passaggio della linea di Pietro Marcello, agli scorci immaginifici di È stata la mano di Dio, e il recente Parthenope di Paolo Sorrentino, la sua cifra riconoscibile ha dato corpo e luce a molti lavori del cinema d’autore di questi anni. «Venezia a Napoli», rassegna diretta da Antonella di Nocera, domani le assegna il Premio Speciale Autrici Valentina Pedicini di questa quattordicesima edizione (cerimonia h 20 Sala Assoli). La intervistiamo mentre è sul set di un nuovo film.

Come ha iniziato, quali incontri l’hanno formata?

Era il ’97, ero iscritta al primo anno di Lettere. Ho fatto la primina, non avevo neanche 18 anni. Teatri Uniti cominciava a produrre cinema, Pasquale Mari mi accordò la possibilità di fare la volontaria sul set di Isotta di Maurizio Fiume. Mi piaceva fotografare per strada, avevo vari progetti sul corpo femminile, auto ritratti, stampavo, sperimentavo in camera oscura, mi ha fatto capire tante cose. Da giovane non ero molto socievole, il cinema in questo è stato salvifico, mi sono innamorata della sua dimensione collettiva. Il set è stata una grande scoperta. Quando ho cominciato, a Napoli di figure come me non ce n’erano molte, questo mi ha avvantaggiata. Un altro film importante è stato Teatro di Guerra di Mario Martone. Di quei sei mesi mi porto dentro lo scambio con persone colte, più grandi di me, generose, ben disposte a condividere e trasmettere saperi. Per loro provo un sentimento di grande riconoscenza. Gli incontri importanti poi sono stati tanti: Luca Bigazzi, con cui ho lavorato tredici anni, mi ha aperto le porte percettive; Francesca Comencini, Roberto De Francesco, Antonio Capuano, Paolo Sorrentino, Gianni Amelio. Ma anche altri, come Natalia Ginsburg, Elsa Morante…

Napoli ha influenzato la sua arte? Come ha lavorato per portare al cinema la sua luce? Penso a «È stata la mano di Dio» e «Parthenope».

Non so dire in che forma, sicuramente essere cresciuta a Napoli ha condizionato delle parti di me. Mi piace pensare che occorre abbandonare quello che sai, cosa molto difficile quando devi lavorare a un film ambientato nella città in cui sei nato. Soprattutto nell’ultimo, più che cercare una realtà, nella luce ho cercato la poesia. A differenza di È stata la mano di Dio, in cui c’era un minimo di aderenza a una storia, e ai ricordi di Paolo, Parthenope è un racconto libero su una città che è tante anime, tante luci. Ho cercato di assecondare ogni punto del racconto rispetto a come era la luce in quel momento, non rincorrendo una luce filologica. È una luce inventata, sentimentale. Non so se ci sono riuscita. È più come una la sente, rispetto all’idea di che ci si è fatti di Napoli. Una trasfigurazione della sua luce. Anche se è una storia che va dagli anni ‘50 al 2023, è un film sullo scorrere del tempo. Una lunga estate perfetta. Non ci sono risposte. Tocca argomenti a me cari, pone domande. Mi piace quando sono libera di andare dove voglio, come spettatrice, e quando lavoro sul set.

Quando ha iniziato, la direzione della fotografia era un mondo prevalentemente al maschile, quanto ha pesato questo nella sua carriera?

Magari sono una pazza, non ho mai badato molto alla questione di genere. Quando ho cominciato non c’erano molte ragazze, ma non l’ho sentito come un peso, per me tutto è partito da una fortissima epifania. Il cinema sta cambiando. Alle ragazze che lavorano con me dico sempre: non dovete mai pensare «io questa cosa non la posso fare». Ho tante colleghe bravissime, anche molto più giovani, questo per me è motivo di felicità, un segnale di speranza.

Lei non viene da scuole o accademie. Cosa consiglierebbe a un giovane che si affaccia verso questo percorso?

Avevo pensato di fare il Centro Sperimentale ma ero talmente travolta da quello che mi accadeva. Ho imparato lavorando: guardando in silenzio, ho iniziato a parlare dopo tanti anni. L’importante all’inizio era capire dove mettermi. Ogni volta ti devi adeguare a un modo di vedere le cose, la spinta necessaria per chi fa questo lavoro è mettersi in ascolto, sosteniamo l’idea di un altro con la nostra capacità d’interpretarla, renderla dal punto visivo, con sensibilità, empatia. La stessa attitudine che ho nei film di finzione ce l’ho nel cinema del reale. Mi piace stare tra le persone che raccontano storie. Adoro fare documentari, ne farei molti di più. Al di là della tecnica, ciò che conta è allenare lo sguardo. Come fai a fare un lavoro dove racconti storie e non essere cosciente di quello che ti succede intorno? Ai giovani direi questo: viaggiate, fate politica, state per strada, leggete tanto. La cultura aiuta a difenderci, l’immaginazione dà il potere di pensare a un’alternativa, di osservare il mondo con un altro sguardo.

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