Cultura

Dare la mano, sfida tra saluto e salute

Dare la mano, sfida tra saluto e saluteBassorilievo con il re Shalmaneser III d'Assiria che stringe la mano a un babilonese, IX secolo a.C

Saggi «L’avventurosa storia della stretta di mano» di Massimo Arcangeli, per Castelvecchi, una carrellata avvincente sulla biografia di un gesto che suggella patti, matrimoni e dà fiducia all'altro da sé

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 13 gennaio 2021

In questi primi giorni del 2021 l’augurio di un anno fatto di caldi e impetuosi abbracci impazza. Per molti non poter toccare gli altri, per conoscerli o esprimere affetto, è un supplizio. Scopriamo il valore della relazione fisica di contatto, pratica fra le più ovvie e consolidate, ora che ne siamo privi. Che forme ha la prossemica, linguaggio semiotico dei rapporti interpersonali di prossimità e di distanza, normalmente silente, poco conosciuto, ma che acquisiamo da bambini prima della parola?

L’INSTANT BOOK di Massimo Arcangeli L’avventurosa storia della stretta di mano. Dalla Mesopotamia al Covid-19 (Castelvecchi, pp. 108, euro 14,50) esplora quest’universo a partire dal modo più diffuso di approcciare l’altro in Occidente: il darsi la mano. Se con persone della nostra cerchia usiamo il bacio, l’abbraccio o la rapida apertura e chiusura del palmo insieme al «ciao» – dal veneto s-ciavo «(sono vostro) schiavo» -, gli estranei li incontriamo allungando e stringendo la nostra destra nella loro. Si esce, cioè, dalla comfort zone e si ripone fiducia nell’altro compromettendo il proprio stato di benessere fisico.
Arcangeli percorre i secoli mostrando, con testi artistici, storici e letterari, gli slittamenti semantici della dextrarum iunctio. Si va dalla stipula di alleanze politiche, nel pannello scolpito dell’Iraq Museum di Baghdad, dove notiamo la stretta di mano, nell’850 a.C., fra il re assiro Salmanassar III e il re babilonese Marduk-bel-usati, alla riconciliazione fra due città, come Samo e Atene, metaforicamente rappresentate dalle rispettive dee protettrici, Era e Atena, in una stele dell’Acropoli di Atene del 402 a.C.

IN OCCIDENTE la stretta di mano era nota da tempo anche come simbolo di iniziazione a sette e gruppi esclusivi, di lealtà in amicizia e di fedeltà coniugale, nel rito del matrimonio e al decesso di uno dei due sposi, a riprova di una concordia proiettata oltre la morte. Se fin da allora era marcato che la mano da stringere fosse la destra – il termine in uso per indicare la stretta di mano in greco era dexióomai, appunto «dare la destra» – l’anello che nelle nozze suggellava questa unione doveva essere infilato dalla mano destra dell’uomo nell’anulare sinistro della donna, ritenuto connesso al cuore tramite un nervo sottile.
Il Ritratto di Marsilio Cassotti e della sua sposa Faustina (1523) di Lorenzo Lotto testimonia questa tradizione in voga ancora oggi. Nell’arte glittica medievale e nella gioielleria fiorentina del ’500 la chiusura del cerchio d’anello presentava le destre congiunte stilizzate, a volte con valore legale.

NELLA VITA PUBBLICA dell’era moderna la stretta di mano passò a connotare il legame fra pari, da un lato opponendosi strutturalmente al baciamano, a inchini e salamelecchi vari, dall’altro evitandola con i superiori, il che avrebbe sortito effetti di pessimo gusto. Dopo un periodo reazionario, fra il XVI e il XVII secolo, che aveva visto il ritorno delle cerimoniose gerarchie, l’egalitarismo quacchero ha imposto lo scuotersi reciprocamente le destre in forma di saluto.
Quando si trattava di siglare un patto o favorire la nascita di un’impresa tra famiglie, specifici mediatori potevano intervenire, al posto dei loro mandanti, per stringersi la mano; in siciliano si alludeva a un rapporto viscerale chiamando questi sensali ncucchia viddichi («congiungi ombelichi»).
Ma Arcangeli nel libro non si ferma a una cronistoria della stretta di mano. Mette in tensione il gesto con altri dello stesso paradigma, preferiti per ragioni di sicurezza, come il saluto gladiatorio – afferrarsi per l’avambraccio, accertandosi così che l’altro non nascondesse un’arma nella manica – o per ragioni di igiene, come il saluto romano, portato in auge da Mussolini («la mano, asciutta o sudarella, quanno ha toccato quarche porcheria, contiè er bacillo d’una malatia. Invece, a salutà romanamente, ce se guadagna un tanto co l’iggiene, eppoi nun c’è pericolo de gnente», Trilussa).
Alcune pagine sono dedicate a Trump e all’azione bloccante dell’interlocutore che è preda delle sue mani: nella «doppia stretta» aggressiva con Putin, afferrandone la mano e il braccio, nei tira e molla con Macron o avviluppando nel suo pugno la mano della regina Elisabetta.

PAESE CHE VAI, usanza che trovi, la reazione a gesti inconsulti cambia a seconda della cultura interessata – Bill Gates con una mano in tasca di fronte alla presidente Park Geun-hye ha scandalizzato tutta la Corea del Sud.
Nel mondo vigono forme di saluto diverse, alcune delle quali recentemente importate per un rispetto maggiore della distanza: il namasté dell’India o il tai wai thailandese, con le proprie mani giunte in forma di preghiera all’altezza del mento, del petto o della fronte, il sorriso e l’inchino; il gong shou (Cina), cioè il pugno contro il proprio palmo; lo sguardo reciproco, suggerito dal francese Philippe Lichtfus, maître di bon ton; una pacca sulla spalla (Australia), un bel «toccaculo» (Iran), il piede contro piede di Wuhan, reso popolare da un balletto su Tik Tok, e il gomito contro gomito, a loro volta scalzati da forme meno rischiose, come la mano sul cuore.
Un emoji ha codificato ultimamente il saluto di benedizione «tipico» sul pianeta Vulcano, fatto dal dottor Spock in Star Trek e che ha radici ebraiche. Forse, piuttosto, non sarebbe una cattiva idea ibridarci con i tibetani, che congiungono le mani al petto e mostrano la lingua. In tempi bui di barbari e svalvolati, ci garantiremmo reciprocamente di non essere posseduti da demoni.

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