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Dapper Dan, eleganza hip hop

Dapper Dan, eleganza hip hopLo stilista Dapper Dan (foto AP)

Fashion Lo stilista si racconta in un libro di memorie, da Harlem alle sfilate internazionali. I suoi capi sono indossati da icone rap come LL Cool J, Public Enemy, Run DMC, Bobby Brown, Big Daddy Kane

Pubblicato 10 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

Non è stato mai sufficientemente sottolineato quanto le subculture (e relative espressioni artistico/musicali) siano andate di pari passo con l’estetica dei loro esponenti e riferimenti sonori, influenzandosi a vicenda. Valgano per tutti l’esempio dell’eleganza (sotto cui covava l’aggressività adolescenziale) dei mod (il «rabbia e stile», slogan dei nostrani Statuto, ne è una perfetta sintesi) o dei punk (difficile scindere l’estetica estrema di Sex Pistols o Clash dalla loro musica arrembante).
Dapper Dan è in qualche modo un corrispettivo nell’ambito hip hop (contesto molto ampio, variegato e difficile da inquadrare) che dimostra come talvolta il fenomeno subculturale sia inspiegabilmente e inconsapevolmente, pur con mille diversità, collegato, da una parte all’altra del mondo. Nato ad Harlem, New York, nel 1944, con il nome di Daniel R. Ray (il soprannome «dapper» è un mix di elegante, azzimato e raffinato).

Una vita, come spesso accadeva da quelle parti in quegli anni, complessa. A tredici anni diventa giocatore d’azzardo nella «Mecca della moda e della musica nera» come ha spesso definito il suo quartiere. Una vita di strada che presto gli diventa stretta. Malcolm X è la giusta guida con il suo motto: «Se vuoi capire il fiore, studia il seme». Dan frequenta la Countee Cullen Library, lavora come giornalista, cerca uno spiraglio come scrittore, cambia stile di vita, diventa vegetariano, compie un lungo giro in Africa, alla ricerca del «seme» indicato da Malcolm X. Torna a New York nel 1974, si dedica alla moda e alla sartoria (inizialmente rivendendo dal cofano della sua auto, per finanziarsi, oggetti rubati in strada), raccogliendo fondi per la sua Dapper Dan’s Boutique, sulla 125th Street, tra Madison e Fifth Avenue, nel 1982, talvolta aperta 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana.

Non è una scelta bizzarra ma la semplice necessità di servire chi vive soprattutto di notte e senza orari: boss della droga e spacciatori, gangster, pugili e rapper. La vita di strada ne fa un attento osservatore di ciò che succede e si muove intorno a lui, ne coglie gli aspetti più urgenti, immediati e amati dai potenziali fruitori. Il passato da giocatore d’azzardo lo fa osare senza paura, affinandone l’esplosiva miscela di creativo e uomo d’affari. Le difficoltà, soprattutto a causa di questioni razziali (difficile trovare chi si fidasse di un nero di Harlem, a quei tempi, per fare affari) per procurarsi stoffe e materiale per il lavoro, vengono in qualche modo superate grazie alle sue abilità di faccendiere. «Avevo cominciato comprando i capi dei marchi più desiderati di allora, ma a me non volevano vendere, perché all’epoca non volevano fare affari con i neri».

LE RADICI
Dapper Dan mette a frutto le sue radici nella «malavita» e le coniuga con l’innata creatività, incominciando a produrre vestiti dal taglio personale, «arricchiti» dai marchi più famosi, da Gucci ad Armani, aggiunti ad hoc. Un modo per essere cool e alla moda, anzi, ancora più avanti del trend ufficiale, con pochi soldi. Sostanzialmente quello che facevano, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i giovani mod in Inghilterra. In questo caso l’operazione è ancora più rivoluzionaria. Dove abitualmente il «sistema» attinge dal suo laboratorio gratuito, ossia la strada, e dalla creatività che arriva dai giovani antagonisti, per poi industrializzare le loro nuove idee e guadagnarci, Dapper Dan «ruba» dalla moda ufficiale per metterle a disposizione dei giovani meno abbienti.

«Ho decostruito i marchi fino all’essenza del loro potere, che era lo stemma del logo, e ho ricostruito quel potere in un nuovo contesto. I nomi e gli stemmi significavano ricchezza, rispetto e prestigio. I miei clienti volevano acquisire quel potere, ed era quello che offrivo. Quella era l’era dei pantaloni a zampa d’elefante e delle scarpe con la zeppa, e quando li mescolavo con i vestiti esotici che avevo portato con me dall’Africa, era uno spettacolo da vedere. I miei outfit entusiasmavano le persone dei campus più rinomati tanto quanto chi viveva nelle strade di Harlem». Dapper Dan acquista stock di borse Gucci, Fendi e Vuitton, ne ritaglia i loghi trasferendoli su giacche, pantaloni, cappelli e scarpe (è diventata famosa la New Balance con le G di Gucci).

Il suo stile unico, attraverso la modalità di inventare nuovi capi, «appropriandosi» dei marchi famosi, lo rende popolare tra i rapper ma anche nel mondo malavitoso. Tra i suoi primi clienti ci sono Alpo Martinez e Aize Faison, grandi boss della droga che volevano un’estetica la più ricca, appariscente e chiassosa possibile, in perfetta linea con lo stile gangster. Ma sono soprattutto i nuovi riferimenti musicali della neonata scena hip hop a catalizzare l’attenzione verso il lavoro di Dapper Dan.

IN BILICO
Da lui si servono LL Cool J, Public Enemy, Run DMC, Bobby Brown, Big Daddy Kane, Salt’n’Pepa. Eric B. & Rakim per l’album Follow the Leader si fanno confezionare dallo stilista due giubbotti di pelle con i rispettivi nomi in lettere dorate sulle spalle e il logo di Gucci. Da un punto di vista strettamente legale, l’operazione rimane in bilico tra il lecito e l’illegalità. Non vende infatti un capo spacciandolo per il marchio riportato, che usa solo in funzione estetica ma che è «firmato» da lui. È una ardita, fresca, «piratesca» forma di creatività, non lontana dal «Do It Yourself» dei primi punk che personalizzavano i propri vestiti (su originale indicazione di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren) con scritte, cerniere, strappi, spille da balia o i mod che facevano lo stesso con i propri scooter trasformandoli in nuovi mezzi con l’aggiunta di specchietti e altri accessori.

La creatività dal basso, dalla strada, che spiazza e disorienta l’apparato rigido delle estetiche prefabbricate. Probabilmente il cliente più famoso è Mike Tyson che si fa confezionare un giubbotto con il titolo della canzone dei Public Enemy Don’t Believe The Hype sul retro. A questo punto Dapper Dan diventa una piccola celebrità, il suo nome non è più solo di pertinenza della strada e del quartiere. E incominciano i guai. Le grandi case di moda si accorgono dei «furti» e partono lettere degli avvocati e minacce penali. Nel 1992 è costretto a chiudere per evitare serie conseguenze. Continua a lavorare in maniera più discreta senza più «disturbare» i grandi nomi.

Quando nel 2017 Gucci «ruba» a Dapper Dan l’idea di una giacca, originariamente da lui creata per la campionessa olimpionica Diane Dixon, senza dargliene credito, scoppia una diatriba che riporta il nome dello stilista in primo piano. Il designer di Gucci, Alessandro Michele, si difende dicendo che era un voluto omaggio. In segno di pace chiama Dapper Dan a collaborare con la casa e nel 2018 aprono insieme, ad Harlem, il negozio Dapper Dan of Harlem. Da allora è un susseguirsi di riconoscimenti ufficiali, di suoi capi esposti al Moma, facendo entrare la sua arte antagonista in un contesto più mainstream ma senza diluirne lo spessore artistico originario.

La sua figura ricorre in decine di brani hip hop da LL Cool J in Hip Hop a Tyler the Creator in Odd Toddlers, da Lil Wayne in Ain’t Got Time a Ol’Dirty Bastard in Back in the Air. L’incipit del suo libro, Made in Harlem: A Memoir, recentemente uscito, riassume al meglio, in poche righe, la sua incredibile vita: «Ho avuto difficoltà a cucire insieme la mia vita, quindi dio mi ha reso un sarto. Poi è nato il sogno di diventare stilista. Non ho permesso a niente e nessuno di strapparmi via quel sogno. Ora, dagli angoli di Harlem alle passerelle d’Europa, passando per l’Africa, sto vivendo quel sogno».

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