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Dante tra Enrico VII, Pisa e Cangrande

Dante tra Enrico VII, Pisa e CangrandeTino di Camaino, Monumento sepolcrale di Arrigo VII di Lussemburgo, primo quarto XIV secolo, Pisa, S. Maria Assunta

Edizioni e studi danteschi Le opere latine minori da Salerno, più un libro di saggi (Longo editore)

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 19 giugno 2016

Dante si è fermato a Pisa. E non per poco tempo. Questo è il teorema portante che regge il recente e ricco volume a più voci dedicato a Enrico VII, Dante e Pisa uscito per le cure di Giuseppe Petralia e Marco Santagata (Angelo Longo editore, pp. 520, 56 ill., euro 45.00). E sarebbe novità non di piccolo rilievo nella biografia del poeta che mai ha annoverato Pisa tra le tappe del suo lungo peregrinare, neppure tra le più brevi. A questo punto, ognuno di noi farà appello alla propria memoria scolastica recuperando la celeberrima apostrofe di Inferno XXXIII «Ahi Pisa, vituperio de le genti» con quanto segue, e si chiederà come sia possibile che Dante si rifugiasse proprio là dove aveva destinato alcuni dei suoi versi più duri.

Ebbene, Santagata spiega con dovizia di particolari come tutta la biografia del poeta appaia costellata da incoerenze morali e ideologiche che lo vedranno transitare senza battere ciglio dall’uno all’altro schieramento politico (dai guelfi bianchi ai guelfi neri fino al partito imperiale), senza curarsi troppo di conservare quella patente di coerenza che è giunta fino a noi bella e confezionata da una troppo benevola storiografia dantesca di marca risorgimentale. Dante si trovò spessissimo a «frequentare persone, per non dire a dipendere da loro, che aveva gravemente insultato nei suoi scritti», dal nobile genovese Branca Doria sino al più noto Cangrande della Scala «per il quale nel Paradiso scriverà il più smaccato encomio cortigiano che sia uscito dalla sua penna».

E di servitù in servitù, quando udì della calata in Italia del novello imperatore Enrico VII (1310) eccolo farsi conquistare dal nuovo miraggio di un governo universale che tutto e tutti avrebbe pacificato. Questo se solo l’Imperatore fosse riuscito a vincere l’ostilità perniciosa del pontefice Clemente V, che già manifestava i primi segni di irrequietezza nei riguardi del troppo ingombrante coinquilino, e della riottosa Firenze guelfa, che con tutti i suoi fiorini non solo assoldava milizie per opporsi all’esercito imperiale, ma anche fomentava la ribellione delle città del Nord Italia. Quale momento più propizio, allora, per la stesura della Monarchia, trattato che prendeva le difese dei diritti dell’Impero e ne fustigava gli oppositori, e che Diego Quaglioni («La “Monarchia”, l’ideologia imperiale e la cancelleria di Enrico VII») vuole ora composto all’ombra del mantello di Enrico, forse proprio col supporto e la consulenza dei giuristi imperiali. Parrebbe filare tutto liscio, sennonché la Monarchia contiene un antipatico inciso (I, XII, 6) che fa riferimento al canto V del Paradiso, questo sì certamente composto non prima del 1317. E quell’inciso, ogni volta che si lo vuol cacciar fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché recenti e recentissimi contributi confermano che esso compare in quasi tutti i testimoni manoscritti del trattato e deve pertanto esser considerato parte integrante e genuina del testo. Col che viene a crollare buona parte dell’edificio in riva all’Arno.

Ma se Dante non fu a Pisa dove si trovava in quegli anni? I venerandi biografi alla Giorgio Petrocchi lo portano a Verona forse già nel 1312, e a Verona dovette fermarsi un bel pezzo, almeno fino al 1319, se non oltre. Il che renderebbe lo «smaccato encomio cortigiano» di Cangrande pronunciato nel XVII del Paradiso un po’ più coerente con i dati biografici i nostro possesso.

A rinforzare quella che dovette essere invece una solida e sincera amicizia giunge ora la recentissima e pregevole edizione delle opere latine minori di Dante (Epistole, Egloge, Questio de aqua et terra, testo italiano a fronte, Salerno editrice, pp. LXXXIV-840, euro 59,00). Fra i tanti e sinceramente encomiabili sforzi degli editori, si segnala in prima battuta la nuova proposta testuale dell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, che il curatore Luca Azzetta correda di una equilibrata e puntuale introduzione, rendendo conto in modo lucido e sintetico di tutte le ipotesi in campo (autenticità integrale dell’Epistola; autenticità dei soli primi 13 paragrafi; totale falsità).

Ne emerge una ricostruzione assolutamente convincente che si pronuncia, a mio avviso una volta per tutte, a favore della totale autenticità del documento, lo data in modo persuasivo all’ultima fase di vita del poeta, ne mette in evidenza le stringenti connessioni intratestuali e lo valuta alla luce del solido legame amicale che dovette caratterizzare, in questa fase, il rapporto tra Dante e il signore di Verona nonché vicario imperiale. Ma, ed è questo un ulteriore e importante elemento di novità, quella lettera non fu mai spedita: la natura del testo, ancora provvisoria, denuncia il fatto che Dante non la sottopose a revisione; la tradizione manoscritta, tutta toscana, esclude che vi sia mai stata una circolazione del testo in area veneta, insomma che essa abbia mai fatto ingresso nella cancelleria di Cangrande, come non vi fecero ingresso i canti finali della Commedia.

Quando Dante lasciò la città per trasferirsi nell’ultimo rifugio di Ravenna è dato che si desume dalla composizione della Questio de aqua et terra e delle notevolissime Egloge latine. La Questio fu pronunziata da Dante a Verona il 20 gennaio 1320, di ritorno da Mantova dove si era forse recato per una ambasceria presso i Bonacolsi, alleati di Cangrande.

Se così fosse, pare difficile allontanare il poeta dall’Adige prima di questa data. A loro volta le Egloge, qui offerte in un nuovo ed eccellente testo critico per cura di Marco Petoletti, mossero da una prima epistola metrica che il dotto bolognese Giovanni del Virgilio inviò a Dante da Bologna, dopo averlo incontrato a Ravenna ai primi del ’20. Dante rispose con un’egloga virgiliana e resuscitò così – geniale anche in questa circostanza – un genere letterario rimasto sepolto per secoli durante il Medioevo. La metrica di Giovanni riferisce di avvenimenti che si collocano verso la fine del 1319; anzi, a essere precisi pare di poter scendere fino al giugno del 1320.

Fatto il paio con la data della Questio, l’ipotesi più economica è che Dante sia rimasto a Verona fino ai primi mesi del 1320: la forbice dell’ultimo rifugio ravvenate si riduce drasticamente, il che sarebbe un altro elemento di non piccola novità nella biografia documentaria del poeta.

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