L’attività di Dante Spinotti, uno dei più importanti e premiati direttori italiani della fotografia – nato a Tolmezzo (Udine) il 24 agosto 1943 – inizia nel segno dell’avventura. A diciassette anni la famiglia, scontenta dei suoi fallimenti scolastici, lo spedisce a Nairobi, in Kenya, dove l’intervento dello zio Renato lo fa assumere all’East African Film Service. Nel corso dell’anno africano, sfoga la sua passione per la fotografia in una città che, a millecinquecento metri di altitudine, offre un’eccezionale varietà di paesaggi naturali. La prima volta che si trova fra le mani una cinepresa è quando gli viene affidato l’incarico di filmare il rilascio del leader antibritannico Jomo Kenyatta, finalmente libero dopo una lunga prigionia e destinato a diventare il primo presidente del Kenya. Non perde occasione per infilarsi nei set dei film girati sul posto da registi di varia nazionalità, cercando di carpire i segreti della macchina da presa, da cui è affascinato.

Sul finire degli anni Sessanta è assunto alla Rai di Milano, dove fa in tempo a partecipare alla gloriosa stagione degli sceneggiati con I Nicotera (1972) di Salvatore Nocita, Camilla (1976) di Sandro Bolchi, Un delitto perbene (1976) di Giacomo Battiato, apprezzati per la loro raffinatezza figurativa. Negli anni Settanta lascia il posto fisso di Mamma Rai per misurarsi con il mercato e le sue chances, segnalandosi nell’ambiente come direttore della fotografia eclettico e affidabile, grazie a Il minestrone (1981) di Sergio Citti, La disubbidienza (1981) di Aldo Lado, Quartetto Basileus (1982) di Fabio Carpi, Sogno di una notte d’estate (1983) di Gabriele Salvatores, Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione (1984) di Lina Wertmüller, Così parlò Bellavista (1984) di Luciano De Crescenzo, Interno berlinese (1985) di Liliana Cavani.

Nell’autobiografia Il sogno del cinema, scritta con Nicola Lucchi e appena edita da La nave di Teseo (pp. 317, euro 21,00), rievoca il momento della svolta che coincide, a metà degli anni Ottanta, con la telefonata di Dino De Laurentiis da Los Angeles per proporgli di lavorare con Michael Mann, il regista di Strade violente, noto soprattutto per Miami Vice, la serie con cui aveva rivoluzionato il poliziesco tv. Manhunter. Frammenti di un omicidio (1986), tratto da Il delitto della terza luna di Thomas Harris, segna la prima apparizione cinematografica dello psichiatra cannibale Hannibal Lecter, che qualche anno dopo avrà grande risonanza con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme. Will Graham, l’agente richiamato in servizio, svolge l’indagine sul serial killer cercando di identificarsi con il mostro, fino a mettere in crisi la propria identità. La cupa, angosciosa atmosfera del thriller non ricorre mai allo splatter, non ha bisogno di insistere sulla cruda violenza e sul macabro più orroroso. Nell’asettico laboratorio dell’Fbi, il protagonista analizza le scene dei crimini nei minimi particolari, attento agli indizi più sfuggenti. Le immagini sono naturalmente fondamentali perché tutto passa attraverso le fotografie, le riproduzioni, i video. Estenuante celebrazione del vedere, la detection finisce con l’essere un’allucinata metafora dello sguardo. Sin dall’inizio, la sintonia fra il regista e il direttore della fotografia, entrambi poco più che quarantenni, è assoluta. Spinotti, che condivide l’energia visiva e l’intensità compositiva di Mann, contribuisce con il suo strepitoso lavoro sulla luce al fiammeggiante iperrealismo del film.

Il sodalizio tra i due prosegue con L’ultimo dei Mohicani (1992), dal romanzo di James Fenimore Cooper, che rievoca la guerra tra coloni americani e francesi, mohicani e uroni, imprimendo all’avventura del rapporto dell’uomo di fronte all’immensità della natura la sorprendente, adrenalinica vivacità del grande spettacolo. Alla fine di una notte di riprese, Spinotti vede la luce dell’alba schiarire il cielo. Mann continua imperterrito a girare con gli attori fino a quando si volta per dirgli: «Dante, che ci fa quel diecimila acceso in mezzo agli alberi? Spegnilo». «Michael, quello non è un proiettore. Quello è il sole che sorge. Non lo posso spegnere. Forse è meglio andare a dormire».
Heat – La sfida (1995) non è soltanto la guerra di una banda di criminali e dello sbirro che intende catturarli, soprattutto dopo la clamorosa rapina al furgone blindato, ma un poliziesco che punta a cogliere la complessità dei rapporti umani in una singolare varietà di personaggi magnificamente descritti. Il film, da molti considerato un capolavoro, è la rappresentazione particolarmente intensa dell’oscura Los Angeles del crimine, che deve molto alla straordinaria abilità di Spinotti di orchestrare l’illuminazione in funzione narrativa, adeguandosi al ritmo incalzante del racconto. Fra gli anni Ottanta e i Novanta il cinematographer friulano è un pendolare di lusso che alterna i set americani con quelli italiani. Se in patria firma tra l’altro la fotografia di La leggenda del santo bevitore (1988) di Ermanno Olmi, di La fine è nota (1993) di Cristina Comencini e di L’uomo delle stelle (1995) di Giuseppe Tornatore, il suo maggior successo statunitense è L.A. Confidential (1997) – la Los Angeles dei primi Cinquanta ispirata agli scatti di Robert Frank – di Curtis Hanson, dal romanzo di James Ellroy, e per il quale ottiene la nomination all’Oscar.

Il rapporto con Mann riprende per The Insider – Dietro la verità (1999), un thriller politico sulle multinazionali del tabacco girato quasi interamente con la macchina a spalla, e Nemico pubblico (2009), un ambizioso gangster movie su John Dillinger, in cui i due usano per la prima volta il digitale. Nel frattempo – in un periodo di grande fortuna internazionale per il made in Italy della fotografia – partecipa a numerosi titoli dei generi più diversi, collaborando tra l’altro con Bruce Beresford (Crimini del cuore), Peter Bogdanovich (Illegalmente tuo), Paul Schrader (Cortesie per gli ospiti), Garry Marshall (Paura d’amare), Herbert Ross (I corridoi del potere), Michael Apted (Occhi nelle tenebre), Sam Raimi (Pronti a morire), Barbra Streisand (L’amore ha due facce), Roland Joffé (Goodbye Lover), Barry Levinson (Bandits), Mark Abraham (Flash of Genius).

Il fascino del libro sta soprattutto nella scoperta della scatenata vitalità del set hollywoodiano, in cui lo smagliante livello del cast artistico si salda all’impeccabile professionismo dei tecnici, instancabili nell’identificarsi con il film a cui stanno lavorando. La rivoluzionaria novità del digitale si è imposta ormai nella maggioranza dei progetti e delle realizzazioni, ma non riesce a far dimenticare lo scenario di appena ieri, quando tre macchine da presa si mettevano in gioco per catturare l’inquadratura da vari punti di vista, mentre, montate su una gru, ventiquattro lampade da mille watt gareggiavano con il verde dei lampioni stradali. Amato dalle star per l’abilità con cui le sa ringiovanire – che minimizza attribuendola a un libriccino della Kodak, Come fotografare le donne bellissime, trovato per caso -, nel corso degli anni è venuto stabilendo tutta una serie di rapporti di collaborazione e di amicizia con produttori, registi, attori, soprattutto da quando si è insediato con la famiglia nella sua casa di Santa Monica. Né italiano né americano, si sente una sorta di apolide, un cittadino di due mondi, che apprezza la pragmatica concretezza degli States, ma avverte la mancanza delle immagini e dei colori della Carnia, dove affondano le sue radici.