Dante di destra? Nel governo voglia di rivalsa culturale
Il caso Già Furio Jesi aveva individuato nel particolare rapporto con il passato come strumento di manipolazione mitologica uno degli elementi più forti di mobilitazione dei movimenti reazionari
Le parole su Dante del Ministro della cultura alla kermesse milanese di Fratelli d’Italia del 15 gennaio vanno prese sul serio. E non certo per difendere quel poco di alfabetismo letterario che vorremmo diffuso in una società ad alta complessità come la nostra. Vanno lette con attenzione perché esprimono, seppure rozzamente, una volontà di rivalsa “culturale” che bolle sotto la pentola del governo Meloni, e di cui Sangiuliano tenta di farsi portavoce.
Certo, le sue dichiarazioni sono il capitolo più recente di una lunga storia di appropriazione di Dante da parte della cultura reazionaria. La storia dei centenari danteschi, in questo senso, è significativa. L’onda lunga del Risorgimento, rivoluzione tradita e lasciata a metà, divampò nel 1921. A Ravenna, la città dove Dante era morto 700 anni prima, si ripeté la sfilata che si era tenuta, sotto auspici anticlericali, a Firenze nel 1865. Questa volta, però, quella che era stata una commozione spontanea, con ampi aspetti di devozione popolare, diventò una marcia militare. Calarono le camicie nere, e l’atmosfera si fece meno festosa. Nel nome di Dante si realizzarono le prove generali della marcia che a Roma, l’anno seguente, portò il fascismo al potere.
Si dimentica spesso che tutto ciò poté succedere con la complice partecipazione degli studiosi. Alcuni tra i più illustri dantisti si fecero seppellire in camicia nera – anche il veneratissimo Michele Barbi, editore insuperato dei testi danteschi e inventore della filologia applicata ai testi volgari in Italia. Certo: la devozione scientifica tenne Barbi al riparo di ogni attualizzazione. Ma uno storico influente come Francesco Ercole, studioso del pensiero politico di Dante, non poté fare a meno di farsi scappare un’osservazione come questa: «il suo universalismo (di Dante, cioè) ha come presupposto storico e logico una esigenza di carattere nazionale, che è del tutto estranea, anzi antitetica, alla mentalità democratica e livellatrice dell’internazionalismo pacifista.»
Ciò che preoccupa della dichiarazione di Sangiuliano, è la doppia affermazione per la quale Dante è stato «fondatore del pensiero di destra» sulla base della sua «visione dell’umano ma anche della sua costruzione politica». Attenzione: fondatore non del pensiero conservatore o nazionalista o fascista, ma più tritamente «di destra». È una rivendicazione con aspetti rabbiosi, che pretende soprattutto di ribadire il fatto che la destra abbia una sua dignità culturale. Strana affermazione, in verità, perché nessuno dubita che le culture della destra esistano, tantomeno gli studiosi di sinistra, come Furio Jesi, che ha individuato proprio nel particolare rapporto con il passato come strumento di manipolazione mitologica uno degli elementi più forti di mobilitazione dei movimenti reazionari. Seguendo Jesi, l’agenzia Ansa avrebbe dovuto trascrivere «Umano» con la maiuscola: formula vaghissima, che strizza l’occhio a quelle parole-simbolo – come Tradizione, Patria, Sangue, Razza – che tendono a creare una presa di tipo fortemente emotivo sulla società di massa.
Ciò che preoccupa, infine, è il fatto che tale dichiarazione raccoglie e dà voce, consapevolmente, a una visione maturata recentemente in ambienti apertamente neofascisti, come nel libro di Adriano Scianca, direttore di Primato nazionale legato a CasaPound, che sostiene che Dante abbia «presentito in mondo eminente la natura fatidica dell’Italia». Quel riferimento così inconcreto alla costruzione politica, dunque, nasconde di nuovo una parola-simbolo: Patria. Negli ultimi anni gli studiosi discutono molto del pensiero politico di Dante, senza arrivare a una visione condivisa. Sangiuliano, invece, ha già la sua interpretazione, beato lui.
Quando parla della supposta egemonia culturale di sinistra, dovremmo ricordare al ministro che, durante il centenario dantesco del 1965, pochissimo si discusse del rapporto tra Dante, la politica e il potere. E poi, si evitarono le sfilate. Si capisce. Il presidente della Società Dantesca era un filologo raffinatissimo, Gianfranco Contini, che aveva partecipato alla Resistenza tra le file della sinistra libertaria del gruppo di Giustizia e Libertà. Intervistato alla radio di Montréal, Contini disse che sì, Dante era un poeta engagé, ma di un impegno particolarissimo. Un impegno di tipo linguistico. Contini aveva ragione, perché Dante, anche quando parla di politica, inventa l’ignoto, apre nuovi territori. Unisce le parole e le cose, in una maniera che nessuno aveva fatto prima – e che pochi, dopo, avrebbero capito, specie se seduti sulle poltrone ministeriali.
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