Si avverte un desiderio di riscoperta di romanzi scritti tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del Novecento, e un gruppo di editori coraggiosi lo intercetta giorno dopo giorno riportando in libreria autori che hanno molto da dirci sul secolo scorso e su di noi. Romanzi che hanno avuto all’epoca della prima pubblicazione un discreto, se non ottimo, successo editoriale, ma che per un motivo o per l’altro sono spariti e rimasti pressoché sconosciuti alle generazioni di lettori venute dopo. Il caso più recente riguarda Dante Arfelli e il suo I superflui, romanzo del 1949, vincitore del Premio Venezia (l’attuale Campiello). Il libro pubblicato all’epoca da Rizzoli (e nel 1954 da Valecchi e nel 1994 da Marsilio) ebbe un notevole riscontro di critica e pubblico, varcando anche i confini del paese, andò molto bene in Francia e poi – edito da Scribner (l’editore di Hemingway) – negli Usa, dove vendette circa un milione di copie. Arfelli ha scritto molto e ha pubblicato poco, ha insegnato per gran parte della vita, uomo schivo, abbastanza appartato, molto amico di Fellini, conosciuto a Rimini negli anni delle superiori. Ora I superflui viene rieditato da Readerforblind (pp. 313, euro 17).

Si tratta di uno scrittore eccezionale che ha tratteggiato l’incertezza del dopoguerra come pochi, recuperarlo è doveroso ed essenziale per guardare ancora a quegli anni cruciali. «Tutti ogni tanto incominciano una nuova vita e buttano all’aria la vecchia». Leggiamo questa battuta nelle prime pagine ed è quello che sta facendo Luca, il protagonista, che lascia il suo paese, con due lettere di raccomandazione in tasca, per andare a Roma: madre delle speranze del tempo, già fagocitante e intrallazzatrice, dispersiva e inafferrabile quanto la sua bellezza. La vita di Luca incrocia quella di Lidia, una prostituta conosciuta la sera del suo arrivo, e in seguito quella di Luigi, anarchico militante, e di Alberto, uno studente di Giurisprudenza ben introdotto nella Roma dei salotti. Arfelli ci presenta questa gioventù in cerca di un futuro che non riesce ad afferrare. Roma offre tutto ma nulla pare essere a portata di mano. In tutti loro abita una sorta di disagio, di inadeguatezza. Il sentimento di manchevolezza è più palese in Luca, che lo avverte con chiarezza, ma segna profondamente ciascuno di loro. Lidia è solo in apparenza la più misera e sprovveduta, lei sa sperare, coltiva un sogno, pur non conoscendone la portata reale. Luca, in qualche modo, senza accorgersene, a quel sogno s’aggrappa, offre un sostegno ma è lui che ha bisogno di un appoggio. Vagano per Roma, tra promesse di un posto fisso, lavori precari, chiacchiere con qualche potente. Luca pare non cercare niente, come se avesse già rinunciato in partenza a ogni cosa.

Roma non è accogliente, fluttua sulla miseria del dopoguerra, nel caos della ricostruzione, pare attendere queste vite nuove e l’attimo dopo le respinge, le prende a calci. Lidia, Luca e gli altri galleggiano nelle squallide camere in cui vivono, nel senso di perdita che li tiene per la giacca. Si salvano nei brevi momenti di confidenza o di tenerezza, si sentono superflui e forse lo sono, Roma e la vita andrà avanti ignorandoli o, peggio ancora, schiacciandoli. C’è una domanda che Luca si pone, la risposta è terribile e aperta: «ma perché era venuto? Più che per il sollievo di partire, per la disperazione di restare. E che disperazione fosse, questa, neppure lui sapeva». Dante Arfelli scrive un grande romanzo senza tempo, perché la disperazione, lo spaesamento, la desolazione, il sentirsi fuori posto, sono faccende che ci riguardano ancora da vicino. Luca e Lidia sono indimenticabili, due figure commoventi, delineate nella loro ingenuità e debolezza. Luigi, l’anarchico, così silenzioso, così arguto ma ugualmente perduto. Nel disegno di Arfelli prevale il grigio, che è il colore della miseria, la stessa capitale ondeggia in un colore non definibile che nasconde ogni speranza, preti e faccendieri stanno lì sospesi tra chi raccomandare e a chi affidarsi. La benedizione esiste, ma riguarda solo alcuni, ci ricorda Arfelli. Lo scrittore di Bertinoro ha il dono della scrittura pulita, tende a usare pochi aggettivi e costruisce dialoghi serrati e ricchi, dai quali si desumono le timidezze e le paure di questi ragazzi e i loro destini, in qualche modo, segnati.