Visioni

Daniele Silvestri, «Viviamo come funamboli»

Daniele Silvestri, «Viviamo come funamboli»Daniele Silvestri – Daniele Barraco

Intervista L'artista capitolino pubblica il 26 febbraio l’album di inediti «Acrobati», diciotto canzoni nate attraverso una lunga jam session negli studi salentini di Roy Paci

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 24 febbraio 2016

Si inizia dalla copertina decisamente intrigante, realizzata da Paolino De Francesco, che è un po’ la vetrina del disco. Daniele Silvestri chitarra in mano volteggia sospeso su un filo mentre sotto di lui altri personaggi si muovono, sospesi tra le nuvole da dove si intravedono strade e grattacieli. È Acrobati – e come poteva intitolarsi altrimenti – il nuovo album del cantautore romano in uscita venerdì 26 febbraio per SonyMusic. Un lavoro zeppo di idee e canzoni (diciotto), nato da un iPhone pieno di appunti musicali sviluppato in uno studio di Lecce – di proprietà di Roy Paci – diventato poi un disco vero e proprio. Pensato come una lunga jam session in cui Silvestri non si è fatto proprio mancare nulla: dal rock al funky, dal metal alla canzone d’autore flirtando allegramente con l’elettronica.

L’impressione all’ascolto è che si tratti di un disco fatto con estrema libertà.

La libertà era un’esigenza e un dovere effettivo. Probabilmente ha avuto questa importanza il lavoro fatto con il trio (Niccolò Fabi e Max Gazzè, con i quali ha inciso un disco e portato avanti un tour durato 18 mesi, ndr). È stato come mettere un punto a a capo con i vent’anni precedenti. Questo mi ha permesso di scompaginare un po’ le carte e di ripartire da capo. E a 47 anni non era così scontato…

Da questo iPhone sono usciti parecchi spunti

Ho cominciato a raccogliere frammenti di canzoni sul telefonino anche per mancanza di tempo, ero in giro con il trio e non avevo altro modo. In passato prendevo appunti e cominciavano subito a svilupparli, ma qui man mano che il telefonino si riempiva è scattato una sorta di meccanismo ’maniacale’ per cui mi sembrava di avere in mano una cosa sempre più preziosa. E la parte più divertente è stata entrare in sala e sviluppare le idee insieme agli altri «genitori» musicisti. Perché qui l’ambizione era non di tenere lo spunto iniziale, ma quello immediatamente successivo dove ci sono delle forze in campo che si studiano, che sono incuriosite e hanno voglia di sperimentare. E le tracce hanno più o meno tutte questa caratteristica. La linea è stata quella di non piegare la musica alla forma di canzone, non preparare il terreno per poterci scrivere un testo muovendosi su cose note, ma rispettare filologicamente quel tipo di flusso e emozioni.

 

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Intitolare il disco «Acrobati» è stato quindi abbastanza inevitabile…

Sì, mi sembrava una parola perfetta per descrivere non solo questo momento della mia vita e l’approccio al progetto, ma anche per raccontare il momento di tutti. Un tempo che ci costringe a continui funambolismi, alla ricerca di un equilibrio sempre più difficile da trovare.

Ne «La mia casa» canti ’siamo tutti cittadini del mondo, forse casa mia è a Parigi, tra la Bastiglia e il Bataclan’. Un appello a non rinchiudersi e soprattutto a non alzare muri per contrastare il diverso, il migrante…

Sì, anche se come buona parte dei testi in questo album nulla è troppo esplicitato. Cerco di trasportare l’ascoltatore altrove, mettendolo nella condizione che possa prescindere da pregiudizi e dal battibecco quotidiano dell’attualità. Racconto questa predisposizione di sentire luoghi lontani altrettanto nostri, anche se li hai frequentati per poco. Mi è sembrato un modo anche politico di descrivere la condizione ideale, la constatazione che l’intero pianeta è un’unica grande casa. E in questo periodo fare questo ragionamento è una risposta alla pressione che ci viene addosso, ai politici che parlano alla pancia delle persone e approfittano di quello che può spaventare. Basterebbe conoscere meglio la storia dell’uomo per sapere che non è il modo giusto per fermare il flusso migratorio. L’uomo l’ha sempre fatto nella storia, anche in maniera drammatica e traumatica, ma è prima di tutto un diritto e spesso l’unica possibilità.

I giochi di parole sono una costante del tuo repertorio, come «La guerra del sale» scritta con Caparezza

Sono almeno dieci anni che volevo collaborare con Michele, stavolta avevo fra le mani un ’giro’ anche musicalmente ideale per lui, un piglio hard rock che Caparezza adora. La frase ’salerò, salerò’ è una sua idea.

«Bio boogie» è la presa in giro della moda del biologico, la vendetta dell’amatriciana… 

Siamo bombardati da informazioni su cosa dovremmo mangiare e non mangiare. E soprattutto per quanto riguarda la salute, se vai su Internet per avere informazioni entri in un mondo terrorizzante. Così una parola tendenzialmente bella come «biologico» si trasforma in un marchio che ci rende tutti vittime di una forma di marketing.

Non hai mai nascosto le tue opinioni, anche politiche. In «Acrobati» regna però una profonda disillusione. Non dico che ti tiri fuori, ma sembri molto stanco di vedere certe storie…

Sì, ho evitato accuratamente – tranne qualche eccezione – di soffermarmi sull’attualità. L’ho fatto perché altrimenti mi sarei trovato costretto a parlare di cose di cui potevo parlare anche dieci anni fa. A 47 anni mi sento meno in diritto di rappresentare o spiegare il presente, e dare il mio punto di vista su ogni singolo accadimento. Penso che ora altri ne abbiamo più diritto di me, io semmai posso fare un’operazione diversa, più poetica che politica. Provare ad alzare lo sguardo, ambire a orizzonti più larghi raccontando storie per far passare emozioni piuttosto che stilare programmi e metterli in fila uno dietro l’altro.

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