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Daniele Atzeni, memorie dal sottosuolo

Daniele Atzeni, memorie dal sottosuolo

Intervista «Inferru», miniera del Sulcis nella metà del Novecento, attraverso la voce di un anziano minatore travolto da una frana

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 31 ottobre 2020

Daniele Atzeni ha portato al festival Cinemambiente (Torino 1-4 ottobre) il suo nuovo documentario. Inferru racconta le divagazioni storiche, politiche, esistenziali di un monologante minatore immaginario – che si esprime in sola lingua campidanese – sospeso tra la vita e la morte attraverso l’ormai distintivo congegno narrativo che Atzeni costruisce lavorando sui materiali d’archivio secondo uno stile forte e personale, tanto complesso e originale sul piano formale quanto innervato di un’idea politica coraggiosa e coerente.

Inferru è un documentario su un luogo che non esiste, fatto di molte immagini più evocative che documentali.
Inferru non esiste, ma è un montaggio di luoghi esistenti: le immagini sono riferite esclusivamente a Porto Vesme, nel Sulcis.
Il funerale, la macelleria, la scuola sono scene che vengono da film di famiglia. Mi sono ispirato a quelle immagini per creare delle metafore: la mercificazione del corpo e poi anche dell’anima dei minatori resa attraverso una macelleria dove i politici locali vanno ad acquistare la carne per la fabbrica. È un contesto che ho vissuto in prima persona. Poi ci sono film di autori importanti come Fiorenzo Serra, o di cineamatori come Salvatore Sardi. Infine ci sono materiai che ho reperito alla Cineteca sarda. Per esempio Inchiesta a Carbonia di Lino Miccichè.

Nonostante il tuo sia un cinema molto cinematografico ha una fortissima componente letteraria. Il testo del monologo della voce narrante è tuo. Quali sono stati i riferimenti?

Ho fatto il mio primo documentario sui minatori del Sulcis nel 2001. Di lì ho iniziato un percorso di studi e di ricerche su quel territorio e poi anche su altri territori: ad esempio mi sono interessato delle miniere della Maremma, leggendo anche i testi di Bianciardi, di Cassola. Poi ho letto molta narrativa: Germinal di Zola, o La strada di Wigan Pier di George Orwell. Per la costruzione del discorso che fa il protagonista ho usato Marcuse, L’uomo a una dimensione, dal quale ho attinto molto sia per la costruzione del discorso del personaggio, sia per la modalità espressiva che ho utilizzato. Marcuse scrive: «il mondo in cui viviamo deve essere compreso, trasformato, anzi sovvertito per diventare ciò che realmente è». Io prendo delle immagini che si riferiscono a una specifica realtà, le estrapolo dal contesto originario – quindi le svuoto di tutti i significati che ha voluto dare l’autore originario – e poi le trasformo, diventano per me come scatole vuote da riempire di significati.

Mi pare che nel tuo approccio ci sia quasi un atteggiamento da medium: oltre la scatola vuota di cui parli, sembra quasi che tu evochi fantasmi attraverso le immagini, come se il film diventasse una specie d’apparizione d’un passato inaccessibile, un oltremodo reale eppure impossibile.
In Inferru è molto presente la fisicità dei minatori, la materia, la roccia il legno, il ferro, però c’è anche una parte metafisica. La mia intenzione era di rappresentare i pensieri di un uomo: il sottosuolo inteso come luogo fisico ma anche metafisico. M’interessava permettere al protagonista di viaggiare a cavallo tra i tempi: si trova sospeso in un limbo temporale e questa sua condizione gli permette di vedere il passato come fosse in un film – dice lui -, di raccontare il presente, e poi di prevedere quello che succederà quando lui non ci sarà più. Questa sua condizione quasi di fantasma gli permette finalmente di capire che tutto quello che è stato fatto per un miglioramento – le lotte – è stato inutile perché non si è arrivati a quello che doveva essere il fine ultimo ossia la liberazione. Dice il protagonista: abbiamo lottato, abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita, ma non ci siamo liberati, siamo sempre servi. La nostra gabbia è solo più comoda.

Torno alla letterarietà del tuo cinema, pensando alla citazione di Dostevskij all’inizio e all’uso di una certa prosa drammatica che sembra risuonare di eco russe.
Memorie dal sottosuolo è stato un riferimento importante perché è anche un monologo di critica sociale in cui il protagonista si scaglia contro il positivismo dominante della sua epoca, dice che non ci può essere un futuro diverso per l’uomo perché dentro gli rimane sempre questa sorta di sporcizia, di volontà di autodistruzione. Che è quello di cui parla anche il protagonista di Inferru che è un personaggio molto classico, fa i conti anche con l’incapacità dell’uomo di andare contro il proprio destino. Di riferimenti letterari ce ne sarebbero tanti. Due importanti sono Il discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, e Il diritto alla pigrizia di Paul Lafargue, il genero di Marx.
Da Boétie ho attinto molto. Ad esempio lui racconta di un tiranno ipotetico e di come la forza gli venga data esclusivamente dal popolo che decide di servirlo perché non è mai stato libero, e poi le dinamiche sociali che fanno in modo che il popolo sia tenuto sotto il giogo del tiranno. Mi è servito per raccontare le dinamiche che fanno parte della realtà mineraria.
Lafargue invece si scaglia contro quella che lui chiama la religione del lavoro, il dogma del lavoro. Jacques Ellul la chiama ideologia del lavoro. Noi nasciamo e la scuola, la famiglia, la società ci dicono che dobbiamo per forza essere dei lavoratori e non c’è scampo a questa condizione, e non si riesce ad andare oltre, a usare l’immaginazione per superare questa ideologia trasversale a tutte le formazioni politiche.

Sembra che nel monologo del protagonista ci sia un po’ anche la voce del regista. D’altra parte trovo affascinante il modo in cui la voce narrante giochi anche il ruolo di testimone inattendibile: una voce che viene da uno spazio remoto dove la verità è dicibile, e che però sembra fare affidamento su una memoria fallace, le immagini e il racconto dei suoi ricordi sembrano non coincidere mai perfettamente.
È così. Il protagonista ha quasi il dono dell’ubiquità: è nel sottosuolo travolto da una frana, però sta anche scendendo con la gabbia insieme ai suoi compagni, e poi anche attraversando una galleria buia. C’è la possibilità che si possa riportare tutto al momento preciso della sua ultima discesa, che ritorna ciclicamente nel racconto. Come un’anima, passa da una situazione ad un’altra. È anche il folle: vede esclusivamente attraverso gli occhi che gli fornisce la propria coscienza, lo scavare al di sotto del suo sottosuolo per poter cavare un discorso che sia unico. Per questo è un personaggio ottocentesco.
Nel film c’è molto di me, molto di quello che penso, molto di quello che ho vissuto. A volte il personaggio vive di vita propria, ma spesso la mia voce si sovrappone alla sua. Per esempio per la vena pessimistica che attraversa tutto il film.

Il tuo può essere scambiato per un film ecologista, poi c’è una chiara linea politica del discorso che costruisce. È un’idea, quasi una condanna del mondo, molto precisa e però non è così chiaro quale posizione politica ci sia dietro.

I maggiori problemi in Sardegna sono relativi alle servitù militari, alle ex aree minerarie, alle aree industriali dove c’è un tasso di mortalità molto alto, e dove molte attività economiche sono precluse, a cominciare dell’agricoltura e dalla pastorizia. Nonostante il Sulcis abbia avuto uno dei più grossi centri minerari d’Europa e nonostante abbia avuto l’industrializzazione degli anni Sessanta, che sembrava dover risolvere tutti i problemi, si ritrova a essere una delle zone più povere d’Italia. Credo che il territorio si debba difendere perché nel territorio ci vivono le persone. Questo è il mio punto di vista.
Sul piano politico mi posso definire anarco-esistenzialista perché il mio anarchismo nasce da riflessioni esistenziali. Credo che l’uomo debba liberarsi dalla realtà coercitiva che fin dalla nascita ci troviamo a dover affrontare per forza di cose.
Non ho fede politica e non ho fede religiosa. Mi rimane la mia visione critica nei confronti della società. Sono un minatore, mi muovo nel sottosuolo, scavo dentro la coscienza individuale e collettiva per cercare di cogliere l’essenza di questa realtà che rifiuto totalmente.

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