«Vogliono mantenere viva la narrazione colonialista, la conservazione del patrimonio è solo una scusa». Bastano poche parole all’artista peruviana Daniela Ortiz per prendere posizione sulla cosiddetta «cancel culture». D’altronde con la sua pratica multiforme ha iniziato a lavorare sulla pesante eredità imperialista ben prima che il fenomeno assumesse la dimensione attuale. Utilizzando media diversi come il video, la fotografia, la scultura, l’illustrazione, Ortiz ha sempre cercato di scardinare i sistemi simbolici discriminanti insiti nel patrimonio artistico, portandoli all’evidenza.

La scorsa settimana a Roma ci ha guidato in un percorso a più tappe, dall’Ossario garibaldino alla statua di Anita Garibaldi al Gianicolo voluta da Mussolini stesso, che pretese di aggiungere ex post un neonato al suo seno per rinforzare l’immagine di donna come madre. Ed è proprio sul tema della maternità che si è svolta la performance I figli non sono della lupa, uno spettacolo di burattini costruiti da Ortiz per mostrare la continuità tra le attuali ingerenze dello Stato nella vita delle famiglie migranti e il controllo della fascistissima Opera nazionale per la protezione della maternità e infanzia.

Un duro attacco che trova il suo retroterra in esperienze vissute in prima persona. L’appuntamento si è svolto all’interno del ciclo Hidden Histories, ideato da Locales ovvero Valerio Del Baglivo e Sara Alberani, che ci ha raccontato così il progetto: «Volevamo smettere di considerare Roma una città con un passato talmente potente da sovrastarci e immobilizzarci, desideriamo mettere l’eredità in dialogo con l’arte contemporanea», operazione che svolgono tramite interventi nella sfera pubblica e opere site specific commissionate appositamente, «perché la nostra riflessione è legata alla permanenza di quei simboli egemoni risalenti all’Impero romano e all’epoca fascista, crediamo che la questione del colonialismo italiano non sia stata affrontata adeguatamente».

In questo quadro la produzione di Daniela Ortiz rientrava alla perfezione. L’abbiamo incontrata durante il suo soggiorno romano, ospite all’Accademia Reale di Spagna.

Quando ha iniziato a ideare pratiche artistiche connesse ai monumenti?
Ho cominciato più di dieci anni fa, quando ho notato la presenza di un indigeno inginocchiato alla base del monumento a Cristoforo Colombo a Barcellona. Mi ha colpito la sua rappresentazione così paternalistica e ho deciso di girare un video durante il 12 ottobre, la festa nazionale spagnola che commemora il giorno della scoperta dell’America – una celebrazione che peraltro non è stata istituita da Franco ma dal partito socialista negli anni ’80. Ero interessata a un’analisi del monumento ma anche all’interazione dei turisti, perché è la normalizzazione di questi simboli che permette l’attuale persecuzione e la violenza nei confronti della popolazione migrante. I grandi movimenti, non solo negli Stati Uniti lo scorso anno ma anche nel corso della storia – come in Angola durante i conflitti per l’indipendenza – quando si lottano per produrre dei cambiamenti strutturali abbattono i monumenti. Così, ho iniziato la mia pratica artistica su questo soggetto oltre alla lotta politica come attivista. La Spagna è passata attraverso un processo che ha visto la rimozione di molti simboli franchisti nello spazio pubblico, eppure quelli legati alla colonizzazione non sono mai stati messi in questione.

Ha ricevuto molti attacchi in seguito ai suoi lavori sulla figura di Colombo a Barcellona, tanto da farle lasciare il Paese dopo tredici anni.
Credo nell’importanza di occupare lo spazio disponibile su tutti i media, anche in quelli di orientamento più distante perché è lì che viene costruita la narrazione razzista. Per questo accetto sempre gli inviti ad andare in «territorio nemico». Sono stata chiamata da uno di questi programmi in tv per parlare dei monumenti e ho esposto il mio pensiero. Dopodiché ho cominciato a ricevere molte minacce sui sociali, come avviene a tutte le militanti anticolonialiste e antirazziste. La situazione è diventata più pesante quando ho scoperto che uno di questi gruppi mi stava monitorando ed era a conoscenza di numerosi dettagli della mia vita privata.
Anche mio figlio era coinvolto e temevo che questo avrebbe potuto portare a ripercussioni legali perché capita spesso che i bambini dei migranti come me vengano prelevati dai servizi sociali con ragioni discutibili. Dopo aver visto situazioni come quelle del leader di Podemos Pablo Iglesias, con cui pure non concordo su tutta la linea, ma che è stato perseguitato dalla polizia mentre era ministro; oppure la criminalizzazione dei rappers per le loro idee – ce ne sono attualmente più di dieci perseguitati dalla legge in Spagna – ho capito che era troppo pericoloso restare. Così sono tornata in Perù.

Quello del ruolo dei servizi sociali è un tema che ha affrontato anche nella sua performance a Roma…
Sì perché c’è un utilizzo spropositato della legge, che coincide sempre meno con la giustizia. Con un gruppo di amiche e donne migranti abbiamo fatto una ricerca per capire come funzionano i meccanismi legislativi. In Spagna, in contesti famigliari nei quali non c’è alcuna violenza capita sistematicamente e strutturalmente che i bambini vengano prelevati per ragioni razziste e classiste, considerando «fattori di rischio» l’essere madri single, migranti e povere o il fornire un’educazione improntata a una visione politica non conforme alla cultura dominante. Nella mia performance ho voluto inserire una registrazione reale di un momento in cui un figlio viene tolto alla propria madre perché spesso si crede che sia un processo semplice mentre è profondamente traumatico, una vera violenza sui bambini in nome del loro «bene», la ragione patriarcale per eccellenza.

In questo contesto come si inserisce l’arte per lei? E come si muove tra i diversi linguaggi?
L’arte e le mostre per me sono due cose molto diverse, i musei sono spesso parte della macchina coloniale e capitalista, il loro design è pensato per cancellare il lato politico delle pratiche e la possibilità dell’interazione tra le persone. Quindi faccio mostre soprattutto perché ne ho necessità per vivere. Le performance – come quella legata al monumento di Colombo – invece le ho realizzate senza alcuna commissione, diffondendo i contenuti autonomamente, perché per me è importante creare altri canali di distribuzione e soprattutto trovare dei linguaggi e delle estetiche che non siano elitarie, come spesso succede con l’arte.
Personalmente trovo un’esperienza molto arricchente quella di creare in maniera artigianale, il che mi permette di approcciare anche un pubblico giovanissimo. Infine, credo che gli artisti abbiano delle responsabilità politiche perché gran parte delle opere è sostenuta da fondi pubblici, i quali, non dobbiamo scordarlo, provengono soprattutto dal lavoro quotidiano delle classi meno avvantaggiate. Ci tengo comunque a lasciare una linea di separazione tra la militanza e l’arte, c’è una connessione di idee ma il tipo di pratica è totalmente diversa.