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Damon Galgut, fuga oltre i cancelli, che portano fino al nulla

Damon Galgut, fuga oltre i cancelli, che portano fino al nullaBerni Searle, «Home and Away», 2003

Scrittori sudafricani A un tempo thriller e esercizio di stile, «La preda», novella di Damon Galgut, esibisce la sua ambiguità fin dal titolo «The Quarry», che significa anche «la cava», a indicare il legame tra elemento naturale e umano: da e/o

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Un fuggiasco allo stremo delle forze, forse un evaso, certamente un ricercato, uccide il sacerdote che gli ha dato un passaggio e offerto il pasto, si appropria della sua identità e si presenta come il nuovo parroco alla chiesa di uno sperduto villaggio, non lontano dalla cava in disuso dove ha gettato il cadavere della sua vittima. Quando il corpo viene ritrovato e il falso prete che, predicando su libertà e prigionia è riuscito a raddoppiare il numero dei fedeli, getta la maschera e riprende la fuga, ha inizio una caccia all’uomo densa di colpi di scena, nel corso della quale il locale capitano di polizia, inseguendo la sua preda, si fa sempre più simile, lui stesso, a un animale braccato.

Potrebbe essere la trama di un thriller non particolarmente originale: è invece l’intreccio, ridotto all’osso, di un romanzo considerato (a torto) minore di Damon Galgut, La preda, del 1995, che fino al 2003 non era mai stato pubblicato al di fuori del Sudafrica e che in Italia esce ora per le edizioni e/o (traduzione di Tiziana Lo Porto, pp. 160, € 17,00).

Capitoli di poche righe
Liquidato dalla critica del tempo come un crime novel non troppo avvincente, oppure sottoposto a letture in chiave allegorica piuttosto forzate, La preda è una novella di stampo kafkiano su cui aleggia l’eco dei turbamenti sudafricani del primo Coetzee, dall’inquietante veld di Deserto all’attesa carica di presagi nefasti di Aspettando i barbari, fino al vagare senza meta di Michael K., che finirà in una tana profonda.

Ciò che distingue La preda dalle opere dell’autore di cui Galgut è stato spesso considerato un epigono, e lo rende un romanzo originale, è l’abilità con cui Galgut mantiene costante l’indeterminatezza della vicenda, scarnificando il linguaggio, riducendo la struttura a una serie di capitoli brevissimi (cinquantasei in tutto, alcuni addirittura di sole tre o quattro righe), e elevando a protagonista assoluto il veld brullo e depresso. Giù, in fondo, un villaggio dalle strade sterrate, dove escrementi di piccione striano le pareti della chiesa e un prefabbricato circondato da sacchi di sabbia ospita la stazione di polizia.

Galgut sottolinea l’ambiguità della situazione sin dal titolo, The Quarry che, in inglese, può significare tanto «la cava» quanto «la preda»; in effetti, nella storia, l’elemento naturale e quello umano sono intimamente legati: la cava abbandonata conserva il macabro segreto del fuggiasco. Inoltre, nel corso della caccia all’uomo, mentre criminale e poliziotto si scambiano i ruoli, fino ad apparire l’uno «preda» dell’altro, si inserisce l’inseguimento di un ulteriore ricercato, evaso dalla prigione del villaggio, che diviene in certo modo «preda» di entrambi. Se si aggiunge che proprio la cava è la fonte di tutti i guai per il secondo evaso, la valenza plurisemantica attribuita da Galgut al titolo del romanzo diventa palese. Mantenere questa doppiezza di significato in italiano era pressoché impossibile: optando per La preda si è implicitamente enfatizzata la componente «gialla» (o «nera»), mentre è stato lasciato in secondo piano l’elemento naturalistico – il mistero sotteso a una natura ostile e insondabile – che un titolo come La cava avrebbe, invece, sottolineato.

In effetti, la presenza di rocce aride, abissi di pietra, vasti spazi brulli e desertici, i cui colori sfumano dal marrone al grigio senza soluzione di continuità, risulta più angosciante delle vicende narrate che proprio dal paesaggio desolato traggono risvolti conturbanti.

Sullo sfondo di una natura tra le più inospitali e selvagge, i protagonisti appaiono, da ultimo, tutti ugualmente deboli e insicuri. Il fuggiasco, non certo per caso, è senza nome, semplicemente indicato come «l’uomo»; il capitano di polizia e l’evaso, pur avendo un nome – l’uno è Mong, l’altro Valentine – sembrano, alla fine, quasi intercambiabili: insieme a un terzo personaggio, il fratello minore di Valentine, Small, il ladruncolo che trova il cadavere del prete, dipingono le varie sfaccettature di quella mascolinità fallimentare carica di vulnerabilità e frustrazione, conseguenza della violenza e della rabbia intrinseche al contesto dei bianchi sudafricani, che Galgut scandaglia in tutti i suoi lavori.

In questo senso, i personaggi di questa novella non sono molto diversi dal protagonista dell’Impostore o da quello del Buon dottore, romanzi riproposti in questi ultimi anni da e/o, in cui la difficile transizione post-apartheid è trattata in maniera più realistica, senza concessioni agli stilemi del «genere».

La brava traduttrice Tiziana Lo Porto riesce a rendere la prosa poetica di Galgut, satura di immagini e metafore inattese, in un italiano non artificioso, e mantenendo al tempo stesso la struttura sintattica del testo, in cui a una paratassi a tratti esasperata si giustappongono frasi di più ampio respiro, dove la stessa collocazione della punteggiatura – o la sua completa mancanza, come nel brevissimo capitolo sull’eclissi solare o in quello, verso la fine del romanzo, sull’oscurità che cala improvvisa mentre il fuggiasco varca staccionate che sembrano prolungarsi all’infinito – conferisce una coloritura inattesa al narrato. Da questo punto di vista, La preda si presta a venire letta anche come un riuscito esercizio di stile, in cui il giovane autore prova modi e temi che torneranno con maggiore consapevolezza e maturità nelle opere successive.

Del resto, Galgut ha più volte detto che il suo metodo di scrittura consiste nel mettere a punto, prima di tutto, una serie di bozze in cui sviluppa la sua storia con particolari in eccesso, spiegazioni e commenti. Successivamente, snellisce il tutto, sottraendo dettagli e tagliando chiarimenti, fintanto che il racconto diventa criptico e non offre risposte ai quesiti che pone. Non sapremo mai, per esempio, qual è il reato che ha spinto alla fuga il protagonista all’inizio della Preda.

I dubbi di chi legge
Non a caso, l’ultimo capitolo è dedicato non alla fine della caccia all’uomo (nel clima di ambiguità che traversa la storia è persino impossibile comprendere con certezza chi muore e come), ma alla cava, «statica e visibile», avvolta in un’ombra in cui i contorni si perdono, oltre l’epilogo delle vicende umane: «Potrebbe esserci acqua nella cava, o movimento, o niente. Potrebbe non esserci fondo». Chi legge, trascinato nel folle inseguimento che sostanzia la trama del romanzo, è tentato di unirsi al coro dei curiosi, al bar del paese, e aggiungere i propri dubbi alle loro interpretazioni spesso assurde, comunque discordanti, riportate in capitoletti di solo dialogo; o farsi a un tempo cacciatore e preda e oltrepassare, con inseguiti e inseguitori, «cancelli che si ergevano nella desolazione per segnare l’ingresso al nulla».

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