Dall’Uzbekistan  a Pordenone: giornate del Cinema muto, un bilancio
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Dall’Uzbekistan a Pordenone: giornate del Cinema muto, un bilancio

Kermesse Una 43ma edizione che è stata tra le più ricche e rivelatrici nella lunga storia del festival, con retrospettive di grande rilievo culturale, e i classici al centro della scena
Pubblicato circa 11 ore faEdizione del 19 ottobre 2024

Non è certo un’impropria forzatura parlare di «rivoluzione culturale» a proposito della rassegna più sorprendente all’interno delle Giornate del cinema muto appena conclusesi a Pordenone, realizzate dalla Cineteca del Friuli e da Cinemazero e dirette da Jay Weissberg. Una 43ma edizione che è stata tra le più ricche e rivelatrici nella lunga storia del festival, e in cui ogni giorno un programma fittissimo offriva film splendidi a pioggia, incorniciato da due capolavori western del 1926, 3 Bad Men di John Ford e The Winning of Barbara Worth di Henry King: il primo per la Fox da cui Ford si allontanerà, il secondo (scritto dalla grande Frances Marion) per Samuel Goldwyn all’United Artists di King il quale invece diventerà l’emblema del cinema più fiammeggiante della 20th Century-Fox.

Passato, presente e futuro erano più che mai compresenti in un festival che ha dimostrato come il cinema dell’era muta possa diventare il nostro più lucido contemporaneo.

E ancora una volta (come a Bologna per il Parajanov del periodo ucraino e a Pordenone sin dalla storica rassegna del cinema russo prerivoluzionario) il territorio cinematografico sovietico si rivela di una ricchezza inesauribile. Stavolta la sorpresa è ancora più inedita perché per molti di noi l’Uzbekistan era una qualsiasi delle cinque repubbliche centroasiatiche dell’URSS, molto meno presente nel cinema dopo la dissoluzione sovietica rispetto al Kazakistan o al Kirghizistan e non più del Tagikistan e del Turkmenistan.

Ma forse basta ricordare che la capitale, prima di Tashkent, ne fu la mitica Samarcanda per cogliere come questo territorio si ponga in modo forte nella tradizione islamica. Orbene, i film qui visti rivelano come nell’epoca tarda del muto esso fosse la fucina per eccellenza del confronto tra l’illuminismo comunista e le religioni, che se verso il cristianesimo si concedeva facili durezze (testimoniate anche da immagini iconoclaste in Vertov e Eisenstein), verso l’islam entrava nell’immaginario di quella religione per fare battaglie sociali molto coerenti contro la proprietà privata o familiare o clericale delle donne.

Quasi tutti i film della rassegna sono centrati su questa battaglia, a tratti schematica nella fiducia verso le sorti progressive del socialismo ma profondamente sincera nel suo sguardo umanitario sugli esseri. Al punto da pervenire a due capolavori, La seconda moglie (1927) di Mikhail Doronin e La lebbrosa (1928) di Oleg Frelikh, scritti entrambi dalla russa islamizzata Lolakhan Saifullina e interpretati dall’ebrea lituana Ra Messerer, che lascerà il cinema dopo altri due film, pare perduti, per sposare Michail Pliseckij, con cui avrà come figlia la sublime Maja, una delle massime danzatrici del 900.

Il padre sarà fucilato nelle purghe staliniste, Ra (alias Rachel) rifiuterà di accettarne delazioni e finirà nel Gulag, da cui sarà liberata all’inizio della guerra patriottica (che costringerà Stalin a spostare verso il fronte chi altrimenti avrebbe continuato a perseguitare). Nel frattempo la figlia Maja Plisetskaja era stata formata nella danza dalla sorella di Ra, già importante danzatrice, Sulamith Messerer, che ne divenne una seconda madre. Ra non tornerà più al cinema né alla danza (nei due film è anche danzatrice), probabilmente segnata dal trauma della prigionia, e inoltre ignorata da una società sovietica che ha spesso rimosso il ricordo dei crimini passati così come gli stigmatizzati della Shoah vollero talvolta dimenticare.

È importante che l’odierno Uzbekistan abbia voluto invece ricordare il suo passato a Pordenone e che abbia voluto indicare in quelle battaglie degli anni 20 una controstoria rispetto alle derive islamiste che proprio l’Occidente ha favorito (fino all’Afghanistan) per combattere l’Unione Sovietica. Tornando al termine «rivoluzione culturale», esso viene esplicitamente enunciato nella didascalia di uno dei film in programma al festival.

Ma va detto che se questi film sono percorsi da ingenuità e schematizzazioni ideologiche, essi non vi soccombono mai perché prevale la forza flagrante del cinema. E Ra Messerer va riscoperta non solo come un’eroina femminista ma come una splendida artista (su youtube si può vedere un recente documentario in cui la figlia Maja mima il suo gesto nel film, di ricoprirsi col velo per sfida quando viene aggredita dopo essersene voluta liberare).

Il finale di La lebbrosa in cui la protagonista viene espulsa anche dalla comunità di lebbrosi in cui aveva cercato rifugio, è certo uno dei momenti del cinema sovietico più liberi da obblighi ideologici. È forse il più estremo punto di fuga da una deriva di stalinizzazione del cinema. Il leader, che nelle repubbliche centroasiatiche fu più fedele alla consegna leninista di occuparsi dei rapporti tra le nazionalità di quanto non fece nel suo natale Caucaso (e infatti il territorio postsovietico dell’Asia Centrale è sorprendentemente immune di conflitti), si è ahimé concentrato su una criminale centralizzazione totalitaria che lo rende oggi simpatico a Putin.

Ed ecco attorno a questa rassegna nel festival tanti film convergenti, talvolta per quegli incontri che nascono per caso ma non rendono minore il merito di chi gli ha resi possibili. La prima versione di Il quarantunesimo, il cui remake di Grigorij Chukraj del 1956 sarà emlematico del «disgelo» khrusceviano, è diretta nel 1926 dal grande Yakov Protazanov rientrato dall’esilio, e trova proprio nei set centroasiatici l’ambientazione per la sua lotta dell’amore contro la morte.

Ed ecco tre film occidentali di ambientazione russa, tre capolavori che potremmo divertirci a collocare a sinistra (Raskolnikow di Robert Wiene), al centro (The Red Dance di Raoul Walsh) e a destra (Pagine del libro di Satana di Carl Th. Dreyer) per il diverso grado di simpatia verso la contemporaneità sovietica. In ogni caso tre grandi film, e quello di Walsh, in cui il terrorista antizarista pare un sosia di Trockij, si unisce al film di Henry King per la forza «macmahoniana» della messinscena.

E, agganciandoci alle danzatrici Messerer e Plisetskaja, la danza era fortemente presente in altri film, realizzando un’acuta intuizione del precedente direttore David Robinson sul rapporto con l’«arte muta». C’era un film con Alla Nazimova, uno con la ballerina russofila Norka Rouskaja (ed era il mélo messicano Santa in double-bill con un pure magnifico mélo uruguayano, nella bella rassegna latinoamericana in cui spesso il cinema ritrovava la stessa flagranza verso il reale dei film di Griffith e Feuillade in programma). Un’altra attrice di origini russe, la Olga Baclanova divenuta iconica in Freaks, appare in un ruolo di femmina diabolica in Forgotten Faces. Due donne si abbracciano nella danza anche in un primitivo film di Alice Guy nel bel programma di corti e cortissimi protofemministi (con uno splendido Edwin S. Porter). Ma è soprattutto Lyda Borelli a danzare in immagine con due film di sezioni diverse, Rapsodia satanica e La leggenda di Santa Barbara.

Sono solo alcuni degli spunti su un programma magnifico, cui si sono aggiunti i film scenografati da Ben Carré, da Maurice Tourneur a King Vidor (con Lillian Gish); due film col grande Paul Wegener (Darfin di Joe May e Vanina di Gerlach); i film dal vero siciliani con alcuni Luca Comerio; i film svedesi sugli uccelli di Bengt Bern; il sionista The Land of Promise che trova in catalogo un’evidente esplicitazione dei contrasti che evoca nel nostro presente; la splendida cinese apolide Anna May Wong. Ma va particolarmente elogiata la scelta di aprire ogni giornata con le origini griffithiane alla Biograph, compiendo il memorabile Griffith Project e consentendo l’omaggio al palestinese-genovese Angelo Raja Humouda che ispirò la nascita stessa della Cineteca del Friuli. Con un grande tocco finale: un Biograph pregriffithiano del 1904, sulla ripresa della foto segnaletica a una detenuta, che si rovescia in uno sguardo irridente a tutti i carnefici.

Sergio Germani

E i classici occupano la scena

Giovanni Spagnoletti

Non c’è che dire – anche questa quarantatreesima edizione delle «Giornate del Cinema Muto» appena conclusa non ha tradito le aspettative, riconfermandosi un appuntamento imperdibile per chi ama il cinema e la sua ormai ultracentenaria Storia. Tra le tante, persino troppe sezioni della Manifestazione, è stato necessario fare delle drastiche scelte per dare conto qui di quelle che sono state – rispetto a quanto siamo riusciti a seguire – le scoperte o riscoperte più interessanti di quest’anno.

Sarà giocoforza partire dagli «Eventi speciali» con cui si è aperto e chiuso il Festival, e cioè due fondamentali western che hanno scavato e segnato la Storia del cinema: 3 Bad Men (I tre birbanti) di John Ford (1894 – 1973) per la nuova partitura di Timothy Brock e The Winning of Barbara Worth (Sabbie ardenti) di Henry King (1886 – 1982) con la musica di Neil Brand, eseguita dall’Orchestra da Camera di Pordenone, diretta da Ben Palmer. Entrambi questi due colossi della Settima Arte – autori il primo di 130 film tra il 1913 e il 1971 e il secondo di quasi 120 tra il 1915 e il 1962 – sono tra i massimi rappresentanti dello spirito americano e similari per un «modo di pensare all’universo in termini di quotidianità, di un attaccamento alla terra, di una panoplia di immagini pacifiche, di una fiducia nell’ordine delle cose. Probabilmente tale linguaggio è potente, elementare e meditativo, un bel corrispettivo di quello biblico» – così ha sentenziato lo storico francese Pierre Berthomieu.

Detto ciò, a partire da questi due grandi western, entrambi realizzati nel 1926, le differenze tra i due registi sono altrettanto palesi. Girato sull’onda del successo di The Iron Horse (Il cavallo d’acciaio, 1924), 3 Bad Men rappresenta uno dei rari progetti scelti da Ford e a cui ha collaborato anche alla sceneggiatura, a partire dal romanzo Over the Border (1917) dell’inglese Herman Whitaker, di cui comunque è stata stravolta lo sfondo storico-geografico della vicenda originalmente ambientata nel Messico della rivoluzione degli anni Dieci. Che è diventata quella dell’epica corsa di migliaia e migliaia di coloni e cercatori d’oro ad occupare nel Dakota del 1877 i territori indiani sottratti ai Sioux. Tra di loro, anche i tre furfanti del titolo, che, pur essendo dei ladri di cavalli, decidono di proteggere la giovane Lee Carton, orfana di padre ucciso da altri fuorilegge. E così aiuteranno la ragazza e il suo corteggiatore Dan O’Malley (George O’Brien, già protagonista di The Iron Horse) a salvarsi dalle mire di Layne Hunter, uno sceriffo corrotto e dalla sua banda. Conclusione insieme tragica ma anche con il canonico happy end.

Da segnalare innanzitutto le splendide location scelte (Jackson Hole nel Wyoming) oltre alla maestosità della messa in scena, per esempio, esibita nella sublime sequenza della corsa alle terre da parte dei carri dei coloni; ma anche l’espressa simpatia per gli outsider e i toni quasi da commedia con cui si descrivono i tre fuorilegge – un aspetto questo che diventerà una costante, un topos nella successiva filmografia fordiana. Malgrado la grande qualità, al film arrise scarso successo di pubblico tanto da restare l’ultimo western muto di John Ford che tornerà al genere solo nel 1939 con il leggendario Ombre rosse.

Tutt’altro stile assolutamente meno epico, molto più realistico e di una ruvida, immediata drammaticità è quanto caratterizza la narrazione, piana e progressiva, di The Winning of Barbara Worth dove Henry King descrive invece la lotta per trasformare il deserto della California in un paradiso in terra, grazie all’ingegno dell’uomo e alla deviazione del fiume Colorado. Più che alle schermaglie tra la giovane e avvenente protagonista divisa tra l’amore per un valente e coraggioso capo-ingegnere idraulico e un amico d’infanzia che è da sempre innamorato di lei (Gary Cooper nella sua prima parte importante), oppure all’irresponsabile, sfrenata avidità del boss della compagnia a cui si devono i lavori di irrigazione, il regista è, dunque, interessato alla lotta primigenia contro le forze incontrollabili della natura. Ed infatti la spettacolare, coinvolgente parte finale del film in cui una tremenda alluvione minaccia di distruggere il lavoro fatto, è quella in cui King esprime al meglio la sua visione del mondo, dove gli eventi e le calamità naturali si scontrano contro la volontà umana di combatterli e riuscire a sottometterli. Insomma, un’ulteriore variante dell’ottimistica, eterna american way of life.

A chi avesse ancora il dubbio che Harold Lloyd non può minimamente competere con Charlie Chaplin o Buster Keaton, dovrebbe vedere (o rivedere) Girl Shy (Le donne… che terrore, 1924) presentato con la nuova partitura di Daan van den Hurk eseguita dalla Zerorchestra di Pordenone. Una continua inarrestabile valanga di gag o di inseguimenti su tutti i mezzi possibili, dall’auto alla motocicletta, dal tram al carro a cavalli, punteggiano la storia di Harold Meadows, un timido, balbuziente giovane sarto ma anche scrittore di racconti astrusi sulle donne che si fanno beffe di lui così come l’editore che però alla fine pubblica il libro: The Secret of Making Love, dall’intrinseca seppur involontaria comicità, a lui proposto da Harold. Malgrado gli impedimenti, il ragazzo riuscirà, come da copione, a sconfiggere il rivale di turno e a sposare la ragazza di cui si è innamorato dal primo sguardo. Il film scorre senza che una sola pausa (se non in qualche raro momento di riflessione lirica) ne interrompa il ritmo indiavolato con cui si seguono le vicende e le rincorse del celebre «occhialuto» dall’incredibile fisicità che gli consente tutto, anzi più di tutto.

Compiendo un rapido salto olteraoceano, è d’obbligo accennare ad una ingenua fiaba francese, quell’assoluto bijoux per gli occhi costituito da La Sultane de l’amour (La sultana dell’amore, 1919, ancora un «Evento speciale») per la regia di Charles Burguet e René Le Somptier, che, grazie ad un formidabile restauro coloristico, è stato restituito al suo assoluto fascino orientalista da Mille e una notte. Un’opera che fa quasi il paio con un altro delizioso film di fantasy, di poco precedente, di un altro francese, Maurice Tourneur, ma questa volta prodotto in America: The Blue Bird (1918, nella sezione dedicata al grande scenografo parigino Ben Carré) tratto dalla famosa pièce teatrale del simbolista belga e Premio Nobel, Maurice Maeterlinck, L’uccellino azzurro (1908), su un fratellino e una sorellina partiti alla ricerca dell’uccello della felicità per aiutare la fata Berylune.

Nel novero delle «Riscoperte e restauri» proposti quest’anno da Pordenone, ci preme segnalare, infine, due gemme molto diverse nate nella fulgente Repubblica di Weimar, prima dunque della diaspora seguita alla presa del potere di Hitler. Insieme all’espressionistico Raskolnikow (1923, nella sezione «Il canone rivisitato») diretto da Robert Wiene e tratto da Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij – Vanina (Notte di fuoco, 1922) resta, senza dubbio, uno dei film più significativi degli anni Venti tedeschi tra quelli che attingono ad un importante testo letterario (un po’ alla lontana in effetti), rendendolo gran cinema d’espressione visiva. Qui si tratta della celebre novella di Stendhal Vanina Vanini (1829) ambientata agli albori dell’800 e poi tradotta per lo schermo anche da Roberto Rossellini nel 1961, in cui si narra il subitaneo amore tra una giovane aristocratica (Asta Nielsen) e un altrettanto giovine capo rivoluzionario (Paul Hartmann).

Al suo debutto nelle immagini in movimento, il regista teatrale Arthur von Gerlach, coadiuvato da Carl Mayer, il più importante sceneggiatore dell’epoca, va subito al sodo del colpo di fulmine e agli eventi che cambiano la vita dei due protagonisti nel mentre di una rivolta di palazzo contro il locale tiranno (Paul Wegener), per altro padre della ragazza. Il film si regge tutto grazie al gioco attoriale e alla straordinaria performance di una delle massime dive del muto, in contrappunto con un interprete di altrettanta provata bravura, Paul Wegener, che nella parte del padre/tiranno si trasforma anche nel boia della coppia dei due amanti. Un film semplice ma esemplare sulla l’ingiustizia e l’inumanità del Potere.

Con Saxophon-Susi (Miss Saxophone, 1928) di Carl (Karel) Lamac, infine, interpretato dalla star Anny Ondra (la utilizzerà anche Alfred Hitchcock), lasciamo le brume della storia per entrare nel lato più glamour e apparentemente splendente della Repubblica di Weimar, quello dell’avanspettacolo, delle ballerine e del jazz, insomma il quel mondo immortalato da Bob Fosse in Cabaret (1972).

Ma la storia qui narrata da Lamac, in chiave di scatenata, divertente commedia «protofemminista», è anche e soprattutto il cammino dell’emancipazione di Susi, la figlia di una aristocratico, che scambiatasi di ruolo con un’amica ballerina, si ingegna (e ci riesce) a diventare una suonatrice di jazz in un mondo assolutamente maschile.

È la prova provata, quindi, che con una buona sceneggiatura e un gran ritmo di racconto, si possono narrare l’avverarsi di desideri e sogni che sembrerebbero impossibili alle convenzioni o alle leggi di tutta un’epoca.

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