La guerra contro l’Iraq, cominciata il 20 marzo 2003, non è mai finita. Non è finita il primo maggio 2003 quando George W. Bush la dichiarò chiusa con la famigerata espressione “mission accomplished”, sputando altre bugie su un paese collassato. Non è finita a dicembre di quell’anno quando Saddam Hussein fu catturato né maggio del 2006 quando Nouri al-Maliki venne eletto primo ministro. Non è finita a dicembre 2011 quando le truppe Usa vennero pomposamente ritirare dal presidente Obama.

La guerra permanente irachena continua ad uccidere in forme sempre diverse. Quell’operazione disgraziata non hai mai liberato l’Iraq ma lo ha costretto in mille altre prigioni: corruzione di Stato, estremismo islamista, esorbitanti tassi di tumori (macabro lascito del fosforo Usa), dipendenza dall’estero, divisione settaria e fisica, famiglie distrutte, vedove e mutilati di guerra.

Di bilanci, a 13 anni dall’inizio del conflitto, è difficile farne. In molti hanno provato a calcolare l’esatto numero di morti e feriti, ma ogni volta emergono risultati diversi. Un rapporto del 2013 del Ministero della Salute di Baghdad e un gruppo di università canadesi e statunitensi è arrivato a contarne mezzo milione al 2011, bilancio lontano dai 115mila riferiti dall’esercito Usa.

Vanno aggiunti poi almeno 250mila feriti, molti mai tornati ad una vita normale, due milioni di rifugiati all’estero e due di sfollati interni (dati Unchr fino al 2007). Non mere statistiche, ma la misura della distruzione del paese e l’esplosione di una grave crisi economica. E non va dimenticato da quale situazione l’Iraq giungeva all’appuntamento: 23 anni di embargo che hanno negato uno sviluppo normale, fatto evaporare il Pil e provocato indirettamente un milione di vittime.

La crisi è stata facilitata dalla sparizione del denaro per la ricostruzione. Non si sa che fine abbiano fatto 6,6 miliardi di dollari in aiuti statunitensi né 17 miliardi del Development Fund, finanziato con proventi del petrolio e ricchezze di Saddam. Della scomparsa del primo gruzzolo è accusata la leadership emersa dalle macerie istituzionali dell’Iraq e la cancellazione del partito Baath. Per quella del secondo, il dito è puntato su Washington che gestiva il fondo.

Sullo sfondo sta la nascita di una nuova classe politica imposta da fuori: se gli sciiti, maggioranza del paese, ne hanno assunto il controllo, in breve il potere economico e politico è stato abilmente diviso tra i partiti di ogni schieramento e confessione per creare una vasta rete di influenze e fedeltà clientelari che ha bloccato la ripresa. Gli effetti si vedono oggi con le proteste della comunità sciita, in rivolta contro la sua leadership che costringe il popolo in un limbo di disoccupazione, povertà, carenza d’acqua, blackout elettrici e chiusura di migliaia di piccole e medie imprese.

Sul piano militare le epurazioni volute da Washington della componente sunnita delle forze armate ha lasciato un esercito debole e male addestrato che ha palesemente svelato i suoi limiti nel 2014 quando l’Isis ha preso Mosul in 24 ore: l’abbandono di elmetti e divise ha raccontato meglio di tante analisi il fallimento della strategia Usa. E mentre l’esercito regolare collassava, gruppi armati sciiti e sunniti si rafforzavano (dalle tribù dell’Anbar all’esercito del Mahdi di al-Sadr) e con appoggi esterni imbastivano la resistenza contro l’occupazione Usa accusata di massacri di civili.

La narrazione della violenza di quell’invasione può essere riassunta con le immagini di due luoghi che su tutti hanno rappresentato la barbarie. Fallujah, la città delle moschee, su cui durante l’Operazione Furia Fantasma (la più pesante battaglia urbana Usa dai tempi del Vietnam) è piovuto fosforo bianco e uranio impoverito (quasi 6mila le nuove malattie individuate dall’Onu dal 2006, per lo più tumori e malformazioni alla nascita), ha assistito in un mese alla distruzione di 10mila edifici e alla morte di migliaia di civili sotto 6mila colpi di artiglieria e 600 bombe e missili.

E poi il carcere di Abu Ghraib, sinistro luogo di inimmaginabili torture e umiliazioni di iracheni sospettati di un qualsiasi crimine. Prigione Usa dal 2003 al 2006, ha “ospitato” almeno 3.800 detenuti, abusati sessualmente e fotografati dai marines nei famigerati blocchi 1A e 1B.

Le macerie dell’Iraq si sono dimostrate ottimo humus per le reti estremiste islamiste: al-Qaeda ha messo in ginocchio il paese e fatto crescere in seno il suo attuale rivale, lo Stato Islamico. Creatura del leader qaedista al-Zarqawi, l’Isis è attivo da ben prima la caduta di Mosul, metà anni 2000, mentre il futuro “califfo” al-Baghdadi veniva arrestato dai marines e poi liberato «incondizionatamente» nel 2009 da Camp Buqqa (considerato centro di indottrinamento e preparazione militare), aprendo a supposizioni di addestramenti della Cia e diretti legami con il Golfo. Oggi la guerra del 2003 ha il suo naturale prosieguo nell’occupazione di Mosul, le violenze sui civili di qualsiasi etnia e confessione, le autobombe che devastano Baghdad.